Il Partito Democratico che nasce nel gelo

Se Bologna è la capitale degli entusiasti del partito democratico, devo confessare che io, questi entusiasti, non li ho trovati. Ti aggiri per giorni fra Case del popolo, sezioni, associazioni, nuove formidabili scuole di partito di ispirazione ulivista (come Ulibò) e in tutti questi luoghi trovi diverse declinazioni di un medesimo sentimento: fatalità perplessa, dissenso rassegnato o entusiasmo scettico. Passioni condizionate, slanci trattenuti, e visto che qui ci sono sia i più grandi sostenitori che i più grandi avversari del progetto, è assolutamente vero che è qui che si decide tutto: il Partito democratico, in Emilia Romagna come in Italia, nasce sotto il segno dell’ossimoro.
Tra i Ds, soprattutto nella vecchia base militante, c’è chi accetta il Partito democratico con lo stesso slancio con cui ci si predispone a una otturazione odontoiatrica con escavazione del nervo. Fra i giovani leoni ulivisti si guarda alla fusione Ds-Margherita con lo stesso scetticismo con cui si pensa a un tacchino che prepara la cena di Capodanno: è improbabile, ma speriamo che accada. Fra i dissidenti, raccolti soprattutto intorno alla mozione di Gavino Angius e Mauro Zani (che da queste parti forse sarà più forte del Correntone), si guarda a entrambi gli interlocutori con equanime senso di raccapriccio.
La base diessina non ha nessuna passione per il progetto, ma conserva ancora un senso di fiducia nei propri leader, la sempiterna e brizzolata famiglia dei cinquanta-sessantenni postcomunisti italiani. I giovani dell’Ulivo, i trenta-quarantenni che sono gli unici veri teorici del partito inteso come novità, hanno scarso trasporto per i leader, di cui conoscono tutti i difetti, ma pensano che il processo messo in moto nel convegno di Orvieto sia l’unico modo per uscire dal busto ortopedico dei vecchi partiti. I dissidenti (di tutte le età) sono convinti che il Partito democratico sarà un’operazione di maquillage dello stesso gruppo dirigente di sempre, che in questo modo perpetuerà il suo potere demolendo gli ultimi lasciti di democrazia partecipata.
L’eccezione partigiana. Avevano detto, scritto, che nelle regioni rosse c’è una fortissima pressione di base, per fare tutto e subito. Se c’è davvero, io non ne ho trovato traccia. Il fiore all’occhiello del segretario regionale, De Maria, il nome citato in tutte le piazze, è quello di Mario Anderlini, il 92enne ex capo partigiano del Quartiere Reni che ha fondato un nuovo circolo e ripete: «Ho fatto la Resistenza, il Pci, il Pds, adesso voglio fare il Partito democratico!». Ma Anderlini, come uno Stakanov privo di emulatori, è una bellissima figura che eccede la regola. In una delle sezioni più popolose (per numero di iscritti) della città, la Galante-Busi, meglio nota come «Passepartout» hanno convocato uno di questi dibattiti pre-congressuali dal titolo meravigliosamente evocativo, «Verso il Partito democratico» (una direttrice per sostituire un’identità). Si sono ritrovati in quattordici, compreso il segretario di sezione e quello cittadino, Marco Lombardelli. Hanno parlato in cinque, un po’ poco, per evocare l’ingombrantissimo mito partecipativo della base emiliana.
Gioventù cammellata. Così venerdì scorso è calato sulla città il leader dei Ds Piero Fassino, che per raggiungere il quorum nazionale ufficioso del 70 per cento di consensi in Italia, qui (dove sono concentrati un iscritto su tre) deve fare cappotto. Lo hanno portato al «Candilejas», una delle Case del popolo storiche della periferia, dietro la stazione, verso la Bolognina, in un incontro preparato con un mese d’anticipo per celebrare pubblicamente l’endorsement di Sergio Cofferati. La sala era strapiena, e c’erano trenta posti con un cartello «occupato», in prima fila. Occupato da chi? Dieci minuti prima dell’inizio è arrivata – cammellata con tempismo scientifico – una pattuglia di ragazzi della Sinistra giovanile. Una coreografia perfetta che ha permesso a De Maria di proclamare con orgoglio di fronte a Fassino: «E io, che mi sono iscritto alla Fgci nel 1984, sono orgoglioso di vedere in prima fila, i ragazzi della Sinistra giovanile...». (Ovvio che li vedeva, ce li aveva messi lui). Ma la liturgia del partitone è così affezionata alla retorica giovanilistica, alla figura metamorfica del «pioniere» e al rito battesimale del nuovo che dà la mano al vecchio, che la trovata è piaciuta assai: una sala di sessanta-ottantenni che parevano riprodotti con lo stampo, ha applaudito convinta, rassicurata dall’estetica Dorian Gray dosata con oculatezza dai dirigenti diessini.
La passione resiste. Parliamo adesso di loro, di lui, dell’homo diessino emiliano, insomma. L’invecchiamento e l’eroico sentimento di affezione alla politica degli ex iscritti del Pci-Pds-Ds sono un fenomeno tanto straordinario quanto unico al mondo. Giri tra le file di sedie gremite dalle teste incanutite e li vedi tutti con l’Unità in mano, la pagina piegata sulla rubrica di Marco Travaglio o su quella delle lettere, gli articoli sottolineati a matita, e magari ritagliati a futura memoria. È una generazione cresciuta nel Pci, partita proletaria nel 1945, e arrivata borghese ai giorni nostri: gente operosa, onesta, ma anche terribilmente perplessa. Militanti come Franca Lippi, parrucchiera, che sospira: «Quando ho saputo che c’erano Fassino e Cofferati ho deciso di saltare la cena, ho chiuso bottega, sono corsa direttamente qui digiuna». Poi, scuotendo la testa: «A me questa cosa del Partito democratico non mi convince per nulla. Bah! Sono contraria. Ma – sospiro - mi adeguerò». Gente come Francesca Buttiari, camiciaia, partita come sartina nel 1945 per arrivare a costituire una piccola impresa con 15 dipendenti, una che racconta orgogliosa: «Mio figlio è cresciuto dormendo nei carrioli delle camicie. Un giorno gli chiedo: “Come mi vedi?” E lui: “Sempre a lavorare, mamma”».
Legge e ordine. Gente che a Bologna abita nelle case coloniche, ha ancora l’orto e il pollaio, e che quando Cofferati emette le ordinanze contro i tiratardi batte le mani (anche se a chiunque venga da fuori Bologna pare sempre la Svizzera). Eppure anche Francesca, che guarda tutti i talk show e legge quattro giornali (compreso questo) un frammento di identità se lo tiene stretto: «A me non mi convincono mica. Se questa roba passa davvero, io me ne vado al Pdci, come ha già fatto mio figlio».
Il marito di Francesca, Pierino Montanari, era membro dell’Accademia Ottocento, quella nata per tutelare uno dei più antichi giochi di carte bolognesi. Prima si vedevano al Cassero, poi al ristorante Vito, adesso non giocano quasi più, perché la città di oggi non è più quella di Dalla, dove «nel centro di Bologna/ non si perde neanche un bambino». Adesso non si tira più fino a tardi sotto i portici e molte Case del popolo la sera chiudono presto.
Boccette e ballo liscio. Vai in un giorno qualsiasi alla sala Sirenella, a via San Donato, e scopri che qui non si dibatte più, la cosa che conta davvero è il ballo liscio. C’è un signore al guardaroba che del congresso, dice, «me ne frego», un altro che è scettico, uno che non rinnova la tessera da tre anni. Gratta sotto il nucleo degli attivisti inossidabili con la testa bianca, e scopri che qui c’è un pezzo di società che prima era nell’Arci perché era comunista, che ora è nell’Arci solo perché si balla il liscio. Bussa per esempio ai vetri appannati del circolo Spartaco, a San Vitale, un tempo sede di dibattiti infuocati fra chi era anarchico e chi era togliattiano prima, e berlingueriano poi, e scopri che il locale è ancora affollato. Ma solo per un torneo di boccette. «Qui – dice il barista Luca – di politica non si parla più». C’è questa scena che pare una liturgia: le maglie nere dei pensionati dello «Spartaco», quelle rosse degli sfidanti dell’«Arci San Lazzaro», tutti si muovono intorno al tavolo, tutti gli occhi corrono dietro le bocce, e persino le imprecazioni sono trattenute, controllate, sta succedendo un pandemonio perché quello della San Lazzaro ha bocciato col suo pallino, ma pare un film muto: l’unico rumore è il cigolio del segnapunti elettronico, «Bip-Bip» (e lo Spartaco vince). Ti dice Claudio, orgogliosissimo ex operaio dell’Acma, macchine automatiche: «Qui ci siamo addormentati la prima volta nel 1989, ancora marxisti, e ci siamo svegliati due anni dopo, liberisti. Adesso c’è chi ha brutti incubi, chi dorme poco, e chi non si vuole svegliare più, per paura di scoprire che è di nuovo cambiato tutto».
Compagne badanti. Bologna è anche questo, una città di ex ragazzi che sognavano perché c’era un partito-famiglia che glielo permetteva, perché c’era un partito-famiglia che bene o male pensava a tutto. Adesso è una metropoli di 372mila abitanti, 90mila studenti (100mila con le sedi decentrate) di cui 40mila fuorisede. Oltre 130mila sono anziani, ma entro il 2018 saranno diecimila di più: una città vecchia, in cui l’unico processo veloce è l’invecchiamento. Adesso anche il bando del Comune per la casa prevede uno spazio della modulistica e una porzione di metratura a carico, per la figura della «badante». E la mitica «badante ucraina» è anche il cavallo di battaglia del compagno «Stellarossa», il prototipo del comunista bolognese incarnato da Vito, il comico più popolare della città. Quello che esclama: «Io non ci sto che una compagna dell’Est venga a pulire il culo a un vecchio capitalista bolognese!».

E quando lo dice c’è chi ride e chi ha gli occhi velati di commozione, perché la città del partito-famiglia che ti faceva sognare di aver costruito il socialismo in terra, oggi è la città degli anziani con la badante. Che dormono male, non sognano più, che da tempo sono senza famiglia. E che adesso, molto probabilmente, si ritroveranno anche senza partito.
(1. Continua)

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