A patto di non ridurre tutto al puro mercato

L’intervento dell’assessore Finazzer Flory sulla politica culturale del Comune in questo 2009 contiene due punti che meritano grande attenzione.
Il primo riguarda il ri-allineamento della «Milano economico-finanziaria con quella culturale», che Finazzer presenta come problema nazionale, ma che non a caso viene posto in una città come Milano. Se, infatti, è vero che i grandi momenti della storia artistica e culturale dell’Italia sono caratterizzati - dai Comuni al Rinascimento alla Roma barocca - da una profonda unità fra artisti, economia e potere politico, è anche vero che Milano ha conosciuto i benefici di questa sinergia anche in tempi molto recenti - pensiamo alla rivoluzione del design industriale, oggi fenomeno globale, cui Milano diede i natali.
Per questo, giustamente, l’assessore parla non di allineamento ma di ri-allineamento: si tratta infatti di ripristinare una pratica virtuosa senza dover inventare niente di nuovo. Ci vuole solo un po’ di spirito di collaborazione, di cui Milano è più ricca di quanto sembri (anche perché, a Dio piacendo, il vecchio partito dei nostalgici disfattisti sta perdendo qualche pezzo).
Il secondo punto riguarda il tentativo compiuto (devo dire con successo) dal nostro assessorato di produrre una politica culturale che sia al passo con le attese di una società diversa rispetto anche solo a cinque anni fa. In questo senso lo sforzo compiuto per offrire eventi culturali gratuiti - cosa impossibile senza un ripensamento del rapporto, in materia, tra pubblico e privato - è decisivo.
Proprio a partire da quest’ultima nota vorrei offrire il mio contributo sotto forma di alcune osservazioni. E mi scuso in anticipo per il mio linguaggio diretto, che non nasce da intenti polemici, ma solo da un bisogno di chiarezza.
Prima osservazione. L’esperimento dell’ingresso gratuito alle esposizioni leonardesche ci dice che la battaglia culturale si gioca, oggi, innanzitutto sul piano affettivo. Il Cenacolo, Brera, il Poldi Pezzoli, la Rondanini, l’Ambrosiana eccetera appartengono alla città, sono patrimonio di tutti i milanesi, anche se di origine cinese o egiziana. Con la gratuità, l’arte entra nella città e la città nei luoghi dell’arte come in una casa conosciuta e amata.
Seconda osservazione. Attenzione però alla demagogia dei numeri, che non sono tutto. Il bisogno di cultura non è come il bisogno di salsa di pomodoro, e la cultura non è un prodotto da distribuire. Chi amministra la cultura non deve pensare alla società solo come a un mercato, ma anche come una potenzialità, una fonte di domande, ma anche di risposte. In questo senso, va bene soddisfare un bisogno, ma occorre anche aiutare le persone a scoprire nuovi bisogni inediti (altrimenti l’offerta culturale resterà sempre una specie di appendice della tv).
Terza osservazione. Di conseguenza è necessario investire molto nella formazione del pubblico, e questa formazione deve cominciare nei luoghi deputati a tale compito, vale a dire in primis l’università, che non deve essere solo un cliente delle iniziative del Comune, ma un interlocutore creativo.
Ultima osservazione. Una città ha respiro internazionale non tanto perché importa molti prodotti dall’estero (mostre, spettacoli ecc.), ma perché sa imporre all’attenzione del mondo la propria personalità, il proprio patrimonio, la propria pluralità, i propri talenti, che spesso è necessario far crescere. È una via faticosa, destinata forse a produrre qualche numero in meno, ma del tutto necessaria.
La cultura ci è necessaria non come bene di consumo, ma come strumento per capire chi siamo. Questo vale per ogni singolo cittadino come per la città tutta.

Un assessorato corre sempre il rischio di una certa autoreferenzialità, che però bisogna combattere: la cultura milanese ha un soggetto, che è la città stessa, non il Comune. Se Finazzer accetta il mio consiglio, è questa la strada maestra: aiutare la città a guardarsi e, se possibile, trovarsi.
*autore di «Il crollo
delle aspettative. Scritti insurrezionali su Milano»

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