Il Pd borbotta. Ma in aula si inchina all’Idv

Il Pd borbotta. Ma in aula si inchina all’Idv

Roma - Il partito illusionista si materializza e per qualche ora il Pd sembra un altro partito. Rimbalzano le prime notizie sull’attacco dipietrista al Capo dello Stato, e l’intero quartier generale scende in campo armato. La capogruppo dei senatori, Anna Finocchiaro, la più lesta e munita: «La dissennatezza di Di Pietro è senza alibi», sbotta. Affonda il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti: «Ingiurie inammissibili, deve vergognarsi e scusarsi, il suo è un contributo al degrado della vita politica».

La marea monta, e costringe a prendere partito persino Arturo Parisi, che dell’ex Pm dice di «condividere la passione politica». Stavolta, ammette il professore, «ha sbagliato, doveva misurare i toni». Rassicurato sulla coesione dell’area più vicina al dipietrismo militante, il segretario Walter Veltroni butta via la tonaca di don Abbondio e definisce «inqualificabili e inaccettabili» le frasi pronunciate e gli striscioni esibiti in piazza Farnese. E se un senatore (Pietro Marcenaro) può finalmente dire ciò che pensa («Di Pietro è un mascalzone!»), l’ex leader ds Piero Fassino ricalca pedissequamente il giudizio veltroniano, Veltroni raddoppia («Chi attacca Napolitano colpisce le garanzie»), e così la Finocchiaro («Di Pietro tribuno fa male alla democrazia»).

La pasionaria e cattolica Rosy Bindi chiede che il capo dell’Idv, isolato, ora s’inginocchi e faccia penitenza: «Ha smarrito il senso delle istituzioni, farebbe bene a scusarsi».
Tale e tanto è lo sgomento, che si vorrebbero trarre naturali conseguenze. «Veltroni dichiari la fine dell’alleanza con l’Idv», s’autoillude Marco Follini. «Le parole di Di Pietro pesano sui rapporti politici», sentenzia ancora Chiti. S’interroga il deputato Merlo: «Che ci azzecca il Pd con Di Pietro?». Conferma «dissenso e grande distanza» il capogruppo dei deputati, Antonello Soro.

«Insopportabile una convivenza così difficile che è sempre al limite della rottura», decreta l’ex presidente del Senato, Franco Marini.
Tutto chiaro, tutto limpido. Tutto un divertente gioco di specchi mediatici. Una bolla d’illusione creativa. Perché proprio nelle stesse ore dell’attacco al Quirinale, la relazione del ministro Guardasigilli sfonda lo steccato maggioranza-opposizione e sia l’Udc che i Radicali presentano una mozione di sostegno alla necessità della riforma. Il governo apprezza, sostiene e approva. E gli ammazza-tonino del Pd? Tornano pecorelle belanti, ritirano la manina e la pietra, si trincerano dietro la linea Maginot tracciata dall’ex Pm. Guai a uscire dal solco del trattore. La fine dell’intesa con il «destabilizzante» Di Pietro resta così un sogno di mezzo inverno: il Pd non se la sente di fare lo «strappo».

Ci resta male il ministro della Giustizia Alfano, che pure aveva sperato in un ripensamento. «Il Pd dovrebbe fare una profonda riflessione perché si è ritrovato solo con Di Pietro, a votare contro la mia relazione, per di più nel momento in cui l’Italia dei Valori era in piazza con striscioni offensivi nei confronti del presidente della Repubblica, in posizione di retroguardia», dichiarerà. Finale amaro dalle parti del Pdl, che nell’«autoisolamento» veltroniano vede la perdita di «un’occasione storica per una riforma condivisa della giustizia», come sottolinea il capo dei deputati, Fabrizio Cicchitto.

Di tanta speme, ora cosa resta?, avrebbe detto il poeta. «Il Pd dovrebbe rompere con i giustizialisti e i comici», l’auspicio del segretario socialista Riccardo Nencini. Un ottimista: passi per fare a meno dei giustizialisti, ma senza la verve comica non sarebbe neppure Pd.

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