«La pena di morte è ferita ora dobbiamo ucciderla»

Nessuno Stato può dire di rispettare i diritti umani quando procede a esecuzioni di massa o clandestine facendo vendetta, non giustizia

«La pena di morte è ferita ora dobbiamo ucciderla»

Secondo il biologo e matematico americano Martin Nowak alla base della sopravvivenza della specie ci sono altruismo e cooperazione. Una teoria che pare già tormentasse lo stesso Darwin. Possiamo ritenere che ci siano fattori evolutivi o percorsi culturali in grado di contrastare l’istinto a uccidere insito nella natura umana e in un mondo che fino a oggi si è evoluto secondo la legge del più forte?
Lo abbiamo chiesto a Robert Badinter, che ieri era a Milano per presentare il suo libro Contro la pena di morte (Spirali, pagg. 319, euro 25, traduzione di Luciana Brambilla). Badinter è tra le personalità più autorevoli del mondo politico e intellettuale francese, ex ministro della Giustizia e grande avvocato che nel 1981 presentò all’Assemblée Nationale un disegno di legge che prevedeva l’abolizione della pena capitale. Una legge approvata nello stesso anno con l’addio alla ghigliottina.
«Non c’è dubbio - spiega -, l’uomo è un animale che uccide. Non per assicurarsi la sussistenza, ma per la coscienza e la padronanza di sé che sono, in certi esseri e in certi momenti, impotenti a fermare la pulsione di morte. Tuttavia è già un enorme progresso che la pena capitale sia stata abolita in molte parti del mondo. È la vittoria dell’uomo su sé stesso. Certo, ci sono ancora Paesi come la Cina che troppe volte rivendica il diritto a una concezione specifica dei diritti dell’uomo. Ma nessuno Stato può pretendere di rispettare questi diritti quando procede a esecuzioni di massa o clandestine. Lo stesso vale per alcuni Paesi islamici o per gli Usa, i primi sulla lista rossa delle nazioni dove la pena di morte colpisce ancora nonostante gli ideali di giustizia a cui gli Stati Uniti si sono sempre appellati. Ma io sono ottimista. Gli intellettuali cinesi, per esempio, cominciano a interrogarsi e ad avere ripensamenti in proposito».
Il saggio di Badinter è la sintesi della battaglia appassionata di chi si è impegnato in prima linea, non soltanto con gli strumenti di lavoro ma anche con il cuore, in cause umanitarie. È passata alla storia la sua arringa pronunciata nel 1975 davanti alla corte di assise di Troyes, in cui sferrava un attacco memorabile contro la pena di morte allora in vigore.
Ed è soprattutto una riflessione, la sua, che induce a confrontarsi inevitabilmente anche con gravose questioni etiche e religiose (pensiamo soltanto all’eutanasia), con il concetto di perdono nei confronti di chi uccide, con le esecuzioni pubbliche messe in scena negli stadi, con le liquidazioni segrete nelle prigioni, con gli errori giudiziari che vedono condannati degli innocenti (processi non equi, confessioni estorte, prove dell’accusa fabbricate, diritti della difesa violati e così via) e naturalmente con la pena di morte in sé, «che mai, da nessuna parte, ha ridotto la criminalità cruenta. Reazione, e non dissuasione, non è altro che l’espressione legalizzata dell’istinto di morte. Ci abbassa senza proteggerci. È vendetta, non giustizia». Discorso che per Badinter vale anche per il terrorismo: nel caso della pena di morte, lungi dal prevenire o ridurlo, non fa che aggravarlo. Il libro è una raccolta di scritti che vanno dal 1970 al 2006, composti in occasioni diverse e accomunati dalla forte convinzione che la pena capitale è sempre e comunque una sconfitta irreparabile per l’umanità, qualunque siano le politiche o le ideologie.
Insomma, Badinter tocca il nervo scoperto di una società globale che ancora non riesce a venire a patti con sé stessa, almeno non del tutto, anche se una lenta consapevolezza ha iniziato a dare i suoi frutti. In gioco sono la vittoria del Bene sul Male per impedire verdetti di morte irreparabili e lasciare posto alla clemenza, all’umanità ritrovata e alla vita.
Hands off, Cain!, Nessuno tocchi Caino, urlavano gli abolizionisti americani, eppure la giustizia degli uomini uccide ancora. La strada verso l’abolizione universale è ancora lunga, ma c’è speranza.

Scrive l’autore: «Finché fucileranno, finché avveleneranno, finché decapiteranno, finché lapideranno, finché impiccheranno, finché supplizieranno, non ci sarà pace per quanti credono che la vita è il valore supremo per tutta l’umanità e che una giustizia che uccide non è giustizia».

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