L'Occidente sta segando il ramo su cui è seduto. In preda ad una malattia senile da caduta dell'Impero, sta però da qualche tempo anche auto-alimentando un cortocircuito che potrebbe accelerare il collasso. Perché se da una parte nutre una perversa propensione a negare la propria identità storica e culturale, dall'altra vagheggia un nuovo universo di diritti che, con pretenzioso spirito missionario, vorrebbe imporre al mondo.
L'Occidente sta segando il ramo perché ha messo da parte la politica, vale a dire l'attore che ha avuto una effettiva centralità nella sua fase di sviluppo e l'unico elemento capace di coniugare libertà economiche e diritti con tradizioni, consuetudini morali e stili di vita comunitari. A comandare il gioco sono ora le grandi corporation che hanno strategie diverse da quelle degli Stati, e non solo sul piano economico. Non operano, infatti, all'interno dei mercati ma li controllano e le loro relazioni con le organizzazioni internazionali, la società civile e gli Stati sono governate da una visione utilitaristica che trascura vincoli sociali e comunitari. Ma forse non è ancora evidente a tutti che la sterzata dell'attuale sistema economico implica scelte obbligate anche sul fronte dei principi. Le fiamme del politicamente corretto stanno sorreggendo un'azione culturale e insieme pedagogica che, mentre ostenta la difesa dell'autodeterminazione e della libertà, crea codici etici simili a strumenti di censura e di schiavitù. Solo in una condizione di palese inanità e miopia politica elementi così contrastanti come senso di colpa e spirito missionario, auto-risentimento e moralismo, possono apparire facce della stessa medaglia. Ma è proprio per questo paradossale motivo che la caduta dell'Impero potrà verificarsi non già per una conquista dall'esterno, bensì per implosione.
Di una di queste facce traccia i contorni Eugenio Capozzi nel suo nuovo libro, Storia del mondo post-occidentale (Rubbettino, pagg. 180, euro 16), ripercorrendo le vicende dell'Occidente dal 1989 e chiarendo i motivi del progressivo ridimensionamento in un mondo plurale e diviso. L'originaria visione del mondo post-Guerra fredda prevedeva che i conflitti e i problemi relativi al bisogno, alla disuguaglianza, al mancato o carente sviluppo economico sarebbero stati gradualmente riportati sotto controllo dalla cooperazione e dall'interdipendenza. L'età della globalizzazione originava dall'idea di un'affermazione planetaria del nostro modello politico, economico e culturale fondato su principi di tolleranza, sostenuto da una sempre ricercata compatibilità tra libertà e uguaglianza e la dignità degli esseri umani. Al contrario, ci troviamo di fronte a nuovi conflitti etnico-nazionalisti, religiosi e di civiltà in un mondo multipolare dove, peraltro, nel campo delle relazioni internazionali si è risvegliata la geopolitica, considerata per lungo tempo un tabù.
Nonostante lo stato tragico in cui versa, sarebbe un errore arrendersi all'idea che l'Occidente sia diventato del tutto marginale. La realtà generale è infatti più frammentata e controversa. Siamo tuttavia di fronte a un evidente logoramento dei fondamenti condivisi, a un'economia incatenata ai ricatti delle multinazionali e, al contempo, al trionfo di un relativismo che per una singolare bizzarria edifica e impone dogmi moralistici.
Tutto ciò ce lo svela l'altra faccia della medaglia, quella rappresentata dall'auto-risentimento o, per essere più espliciti, dal senso di colpa nel momento in cui va maturando nella coscienza collettiva la convinzione che si debba cancellare il passato, eludere ogni spirito critico e capacità di interrogarsi al di fuori dei cliché e predisporre a erigere come ideologia dominante il politicamente corretto.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Tom Wolfe firmava la sua corrispondenza sui radical chic dalla casa di Manhattan di Leonard Bernstein. E da quando, solo qualche anno più tardi, alcune università statunitensi pensarono di eliminare dai programmi Aristotele, Cicerone, Dante, Cervantes, Kant, Dickens e Tolstoj per sostituirli con una cultura «più afrocentrica e più femminile». Ne è passata di acqua perché quella strana paccottiglia ideologica è ora diventata il medicamento necessario per il consumo, mentre il suo rifiuto rimanda a qualcosa di immorale e indicibile ed evoca un apparato di assunti culturali e di insulti di cui tutti conosciamo i titoli: razzismo, omofobia, sessismo e così via.
Su quest'altra faccia della medaglia, sul razzismo etico, quindi sul processo di censura preventiva delle idee e delle parole, fa una minuziosa ricognizione Giulio Meotti in I nuovi barbari. In Occidente è vietato pensare e parlare? (Lindau, pagg. 130, euro 14) ripercorrendone il cammino di maturazione. Quando un marchio di cosmetici decise di rimuovere le parole «bianco», «sbiancamento» e «chiaro» dalle confezioni dei prodotti il fatto suscitò ilarità. Adesso l'ilarità ha lasciato il campo a convinzioni radicate. Dalle anime candide dello showbiz agli intellettuali «impegnati», da larghi settori dell'opinione pubblica e della politica alle campagne pubblicitarie delle multinazionali, si agita un'avversione sprezzante nei confronti di una società considerata gretta e intollerante.
Ciò accade perché si è costruito un intreccio pericoloso tra università, media, multinazionali e cultura di massa che, al pari della tortura della goccia cinese, sta puntando a smantellare pezzo per pezzo - e giorno dopo giorno - l'autostima dell'Occidente. L'abbandono dell'idea di libertà come adesione al bene e il suo rifugiarsi in un asfittico pensiero unico sta trasformando nel profondo la nostra civiltà che nella foga di emancipare l'individuo lo rende schiavo: «Quello a cui stiamo assistendo - scrive Meotti - è piuttosto lo shock della non-civiltà. In questo nuovo regime, libertà illimitata e dispotismo illimitato non sono più in opposizione. Si sono fusi».
Senso di colpa e nuovi diritti si raccontano bene attraverso la furia della cancel culture. E poi ci sono anche i dementi che, mossi da un'irrefrenabile ansia purificatrice, imbrattano sculture o vogliono crocifiggere l'uomo bianco. E l'idea che l'immigrazione non comporti alcun rischio, che le frontiere esistano per essere attraversate, che le minoranze sessuali ed etniche sono le uniche a poter far valere i loro diritti, che il genere esista in infinite varianti e sia separato dal sesso, che la famiglia naturale rappresenti il male e, infine, che l'orizzonte sia il transumanesimo.
L'impotenza dell'Occidente risiede in questa contraddizione e nel fatto che non comprenda che «il miglior modo per uccidere una civiltà consiste nel farla ammalare e poi farle credere che la si sta salvando vendendole una medicina su cui è scritto rispetto, tolleranza, inclusione, uguaglianza, facendole credere che la medicina somministrata, che in realtà è un veleno, la rimetterà in
piedi». Ma soprattutto risiede nel fatto che non affermi la verità più banale e cioè che non vi sono barbari pronti a entrare, poco più in là della frontiera, dal momento che sono già dentro. Basta guardarsi allo specchio!
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