Le pile di libri e giornali appoggiate sul tavolino di fronte al divano rosso, consumato dal tempo e dai culi più o meno noti che sono passati da lì, sembrano sempre le stesse. Ma sono sempre diverse. Ci sono ritagli nuovi, Topolini nati da due papà. L'ultimo trofeo scientifico è una minaccia genetica, e un post-it, che non avevo mai notato, all’interno di un libro: “Paesaggi”, si legge. Quelli che Massimo Fini non può più vedere (anche se a questa storia che è diventato cieco faccio fatica a crederci davvero perché le belle ragazze, complice forse il terzo occhio che continua a vederci benissimo, Massimo le nota ancora). A quanto pare, l’essenziale è davvero invisibile agli occhi.
Dalla Marlboro rossa che Fini si accende sale un filo di fumo azzurro e grigio che, poco alla volta, riempie tutta la stanza. Ciclicamente, alcuni squarci di luce riescono a penetrare le impalcature e i teli che circondano la facciata, illuminando la stanza. Per un momento, forse anche a causa delle macchine da scrivere appoggiate per terra, il salotto del giornalista sembra diventare una vecchia redazione dove si beveva (in questo caso Chianti), si fumava (oggi Marlboro rosse e Winston blu), si imprecava per una notizia bucata e, soprattutto, ci si confrontava (“I giornali nascono sempre attorno a un tavolo”).
L’incipit è sempre lo stesso: “Matteo, come stai rovinando la nostra professione oggi?”. No, niente giornalismo per ora. Tanto la mia categoria posso continuare a rovinarla anche da solo. Oggi si cambia argomento.
“Massimo, ma perché continuiamo a correre dietro alle donne nonostante ci tirino scemi?”. Fini, che di donne ne ha conosciute e continua a conoscerne tante, sorride e chiude gli occhi solo per un attimo, come se si dovesse concentrare. “Beh, perché sono il nostro opposto. Le donne sono le maestre del sottinteso. Ti dicono: ‘Vorrei tanto andare a Roma’ e, quando sei lì, vogliono essere a Firenze. E quando tu fai notare loro che le hai portate esattamente dove ti avevano chiesto, ecco che ti rispondono che tu non sei stato in grado di comprendere i loro veri desideri. Anche quando piangono veramente, le donne sono insincere perché sanno che anche le lacrime sono un’arma di seduzione”. Silenzio. La mano riempie il bicchiere: “Ma se vuoi davvero capirci qualcosa - dice Fini - ascoltiamo due canzoni. Ehi, Google, metti I vecchi amanti di Battiato (che poi è di Jacques Brel, ma Battiato la canta meglio)”. Piano e archi cominciano a fare il loro mestiere. “Certo ci fu qualche tempesta, anni d’amore alla follia. Mille volte tu dicesti basta, mille volte io me ne andai via…”. Fini non c’è più. È lì, davanti a me, ma ha gli occhi chiusi. Non so a cosa o a chi stia pensando. E in quale luogo sia con l’immaginazione. “Ma dimmi c'é peggior insidia, che amarsi con monotonia. Adesso piangi molto dopo, io mi dispero con ritardo (...) Je t’aime, encore, je t’aime”. Non appena terminano le parole, Massimo passa alla seconda: La canzone dell’amore perduto. “Ricordi, sbocciavan le viole, con le nostre parole: non ci lasceremo mai, mai, e poi mai”. Mentre le note proseguono, Fini dice: “Per me, De André non era un cantante: era un aedo che metteva in musica delle poesie”. E l’aedo continua: “E quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole d’un aprile ormai lontano li rimpiangerai. Ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo…”. E ancora: “E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo…”.
“Tu, Matteo, sei qui. Sei alla prima che incontri per strada per un amore nuovo. Per un amore che ti strappi i capelli. A me è capitato una volta: sono stati nove anni bellissimi, nove anni in cui facevo l’amore tutti i giorni e la mattina, quando rivedevo la mia ragazza, sapevo che dovevo riconquistarla.
Ma un amore così non può durare. Perché è un amore che brucia troppo in fretta e non lascia la brace. Gli amanti non possono avere figli”.Silenzio. Forse, ora è meglio parlare di giornalismo. O, almeno, continuare a rovinare la professione.
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