Phelps, l’alieno della porta accanto

Otto medaglie d'oro in un'edizione delle Olimpiadi: nessuno ha mai fatto meglio di lui. Per battere il record è sceso in acqua 17 volte in 8 giorni. E pensare che il suo primo tecnico gli diede del buono a nulla e gli disse: "Tuffati in acqua, non si vedranno le orecchie"

Phelps,  l’alieno della  porta accanto

Beppe Di Corrado

Tùffati che non si vedono più le orecchie: in acqua si confonde tutto, si scivola, si spinge, si respira, si riempie la vita. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto: Michael conta le medaglie come i passi della danza, come il ritmo dell'esistenza. Non serve una melodia, ma le battute che cadenzano le bracciate. L'iPod prima di lanciarsi in piscina sta lì per quello: Phelps si concentra pensando alla musica che ha appena sentito, al ritmo che gli è appena suonato dentro. Ricorda Rain Man, ti riporta al pianista di Shine, fa pensare a Will Hunting. Il mondo dei geni ribelli o autistici.

Michael sta in mezzo, né uno, né l'altro solo per una bracciata. Phelps è un mostro, un superuomo, un fenomeno. Però è un normale diverso: lo è stato da bambino, lo è adesso, lo sarà domani. L'acqua gli ha dato una vita che l'aria non gli avrebbe garantito. Respira, spinge e conta. La piscina cambia tutto: «Tuffati e non si vedranno più le orecchie» è il consiglio che gli diede il primo allenatore. Perché Michael era un bimbo complessato dalle parabole che gli fanno da contorno al viso.

A scuola lo prendevano in giro e lui reagiva solo in due modi: menando o piangendo. In acqua non si vedono davvero, non servono, ma non danno neanche fastidio. Fuori tornano evidenti e ingombranti, stonate. Allora Phelps a bordo vasca è un'altra persona, torna il bambino impacciato che era, quello incapace di fare qualunque altro sport: provò col baseball prima e col football poi, fu una delusione, una schifezza, un fiasco. «Io so solo nuotare», disse prima di Atene 2004. Lo fa come nessun altro nella storia, poi esce dalla piscina e si svuota. Dopo l'Olimpiade greca si andò a schiantare con la sua auto da ubriaco. Perché fuori non va, fuori non funziona. La vita è a metà: nuota ogni giorno dell'anno, compresi Natale, Capodanno, Ringraziamento, Indipendenza, Labour day. Dice che così ha 52 giorni di allenamento più degli altri: è la giustificazione per l'anomalia di un'esistenza che da asciutto gli deve sembrare troppo difficile. «La mia giornata? Mangiare, nuotare, mangiare, dormire, mangiare, nuotare, mangiare, dormire».

Solo, Michael. Perché a 23 anni gira il mondo con la madre che lo segue passo dopo passo, medaglia dopo medaglia, milione dopo milione. Perché non ha amici e dice di non averne mai avuti. Perché non ha un padre che lo guarda, lo aiuta, lo difende. Il suo se ne è andato quando aveva 11 anni, quando quegli infami dei compagni lo tormentavano per le orecchie a sventola e lui non aveva un uomo che gli raccontasse come un ragazzino impara a diventare adulto. Allora lacrime o botte, poi giù una dose di Ritalin, il farmaco che gli aveva dato il medico per curare quella strana malattia: Attention-Deficit Hyperactivity Disorder. È l'iperattività, è il disturbo dei bimbi che non sanno stare fermi, che non riescono a rilassarsi, che hanno difficoltà a dormire. Michael menava i bambini e litigava anche con le maestre. È stato il divorzio dei genitori, è stato crescere senza un punto di riferimento maschile.

L'acqua l'ha calmato, dice la madre Debbie che lo portò nella stessa piscina dove nuotava Hilary, una delle due sorelle di Phelps. Dorso, prima. Dorso perché Michael non riusciva a tenere il volto sott'acqua. Poi stile, rana, farfalla, tutto. Coperto d'acqua e dalle parole di Bob Bowman, il suo allenatore storico che oggi è l'unico uomo di questa storia di un'America di provincia e contemporanea: due genitori giovani negli anni Settanta, universitari e poi lavoratori della classe media, insegnante lei, poliziotto a cavallo lui, tre figli arrivati senza tanti pensieri, l'equilibrio rotto, le botte di lui, lei dall'avvocato, il divorzio. Bye bye famiglia, bye bye serenità. Una casetta squallida in un sobborgo di Baltimora, una madre e due sorelle. La solitudine. Bob è l'amico, il fratello, il padre. Non è un caso che sia laureato anche in psicologia. Michael preferisce parlarne solo come un socio in affari: lo ascolta e insieme macinano milioni con gli sponsor, i dvd e i premi. Incassa Phelps e Bowman prende una percentuale. Lui continua a parlare mentre Michael nuota.

L'acqua non fa vedere le orecchie e l'acqua copre tutto. Il silenzio aiuta a contare e a tenere il ritmo. Gli altri amici? Non ci sono ancora anche se il suo sito internet è pieno di messaggi e di affetto. Meglio i videogame, meglio il poker online. Meglio Eminem che canta dentro le cuffie dell'iPod: «Fino a quando non crollerò/non mi arrenderò».

È il mantra tecnologico di Michael. Un, due, tre, quattro-cinque, sei, sette, otto. È il suo ritmo, la sua danza anfibia. È la musica che suona in quattro quarti mentre spinge le mani, agita i piedi e respira. A Phelps non serve altro.

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