Piccoli dittatori crescono

L’infanzia dell’uomo che portò i barbudos all’Avana. Tutto ciò che i compagni (di classe) del Líder Máximo non avevano mai raccontato diventa una biografia

C’erano due fratelli Bacardi, destinati ad ereditare una delle più famose distillerie di rum del mondo, ma poi il destino volle altrimenti e il ragazzo di due banchi più in là le nazionalizzò. C’erano futuri agenti della Cia destinati a organizzare lo sbarco della Baia dei Porci e, tre banchi più indietro, futuri dirigenti della polizia di Stato che fece fallire lo sbarco e spedì in galera o al cimitero parecchi fra gli organizzatori. C’era Lundy Aguilar, futuro storico liberale e «dissidente». C’era un Alberto Casas, il Giamburrasca della classe con un futuro di allevatore di bestiame a Portorico. C’erano i fratelli de Jongh, due che sarebbero finiti esuli a Miami e il terzo invece fedelissimo alla dittatura da cui gli altri erano fuggiti. E c’erano altri tre fratelli, con un cognome destinato alla massima notorietà: un Ramon, un Raúl, un Fidel.
La famiglia Castro, appartenente alla ricca borghesia cubana (il padre era proprietario di una piantagione di canna da zucchero, e piuttosto brutale con i suoi dipendenti) mandava i suoi rampolli alla migliore scuola d’élite nell’isola, il Colegio de Dolores, collocato in un vecchio palazzo di Santiago, la seconda città di Cuba, quella dallo storico passato che aveva già inebriato Federico García Lorca in visita. La gestivano, naturalmente, i Gesuiti. Era l’élite dell’élite: la scuola fatta apposta per la futura classe dirigente, anzi per assicurare che la classe dirigente non sarebbe cambiata. Era una scuola religiosa organizzata però anche come un’accademia militare, per «formare il carattere» delle persone destinate a comandare e che dovevano, da adolescenti, imparare intanto a obbedire.
Le incertezze e le ambiguità della libertà erano un optional alquanto malvisto. Più che la conoscenza, a quei ragazzi cercavano di inculcare la Sapienza, il Dovere, una chiara distinzione fra il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre. Durante le vacanze i giovani venivano costantemente invitati a meditare sulle «due bandiere», quelle che dovevano sventolare davanti alle armate, rispettivamente, di Cristo e di Satana, e a impegnarsi sempre di nuovo nel fare una scelta. Non tutti erano sempre docili. Il dodicenne Fidel Castro scrisse una lettera personale a Franklin Delano Roosevelt, per chiedergli «un biglietto da dieci dollari». Poco prima l’eroe del futuro dittatore si chiamava Benito Mussolini e l’invasione tedesca della Polonia lo metteva in grande allegria. La chiamò «la nostra prima vittoria».
Loro, i ragazzi, li chiamavano los Dolorinos. E The Boys from Dolores è il libro che Patrick Symmes gli ha dedicato e in cui si racconta, dopo la più minuziosa ricerca, la storia personale di 238 allievi del Colegio attorno agli anni Quaranta. Non 238 biografie, ma una biografia a 237 voci; perché Fidel di quei suoi anni non parla mai. Symmes crede di saperne il motivo. È uno degli investigatori più acuti degli uomini e degli eventi di quella che vent’anni dopo sarebbe stata la Revolución, il terremoto causato dai barbudos in un’isola dei Caraibi e diffusosi a tutta l’America Latina, dato per morto da un quarto di secolo ma il cui decesso non è ancora acquisito agli atti. Symmes è autore fra l’altro di un libro famoso, Chasing Che: un viaggio in motocicletta sulle orme di Guevara; l’autore lo ha scritto dopo aver percorso tutte le tappe del periplo che da Buenos Aires portò un giovane medico a diventare un rivoluzionario a Cuba.
The Boys from Dolores è meno lineare ma altrettanto ambizioso. Vive di un continuo intreccio fra destini, alcuni chiusi dal tempo o dalla biologia, altri messi a tacere dalla storia, altri tuttora sul palcoscenico. Non è il primo tentativo di ritrovare le radici di un futuro rivoluzionario e dittatore di sinistra in un’educazione tradizionalista e conservatrice. Lasciando da parte il seminarista Joseph Vissarionovic Giugasvili, più tardi secolarizzato come Stalin, che frequentò la scuola degli umili e non quella del privilegio in cui si trovarono apparentemente benissimo i tre fratelli Castro, nutrendosi forse proprio del contrasto fra l’ordine rigoroso dei principî, delle nozioni e delle gerarchie e la rissa più o meno permanente e tollerata dell’«autogoverno» dei collegiali, con tutte le rivalità, le prove di forza, i comportamenti da «galletti».
È all’interno di questa tradizione che Fidel Castro tentò, intorno ai 16 anni, il suo primo golpe. Stava giocando a stickball (una specie di baseball ma più vicino all’aristocratico cricket), sbagliò clamorosamente una battuta, fu fischiato e irriso dai compagni di scuola, scagliò loro addosso la sua mazza, colpendo un altro ragazzo e slogandogli una spalla. La vittima, che era un atleta, lo inseguì e finì con una scazzottata finché non arrivò un prete a separarli.
È troppo facile leggere nell’episodio una prefigurazione del futuro, che nel libro di Symmes è tuttavia sempre presente sullo sfondo, mentre racconta una storia di Cuba dagli anni felici in cui l’oligarchia dominante si godeva la sua Belle Epoque tropicale e nel frattempo l’Europa si scannava nella Seconda guerra mondiale. Cuba ebbe nel 1940 le sue elezioni più oneste, forse le prime e le ultime. Si vedeva il futuro ed era bello, anche se adesso tutti guardano a quegli anni e li chiamano «la vecchia Repubblica» oppure «il tempo prima del tempo». Quattro anni dopo cominciò l’epoca di un dittatore, Fulgencio Batista. La corruzione si diffuse rapidamente attraverso istituzioni grottesche. Dalle pagine «fredde» di Symmes emerge l’«inevitabilità» di una Revolución, anche se non di quella. Una storia, questa, troppo nota anche se per troppo tempo schiacciata dalla leggenda fabbricata dal regime, ma non soltanto.
Molti in Occidente plaudirono lo sconvolgimento politico e la rivoluzione illiberale portato da due fra i 238 allievi della «grande annata» del Colegio de Dolores. Storie di sangue, di repressione, di countdown nucleare, di cerimonie e canzoni, di miseria. Due compagni di scuola su tre di Fidel e di Raúl finirono in esilio. Quelli che sono ancora vivi organizzano ogni tanto una rimpatriata di ex collegiali, non a Santiago ma in qualche golf club di Miami.
Si riconoscono ancora nei Dolorinos? Molti di quelli intervistati da Symmes sì. I più pensano soltanto a durare, anche fisicamente. A durare più della dinastia Castro, per vedere un giorno la restaurazione di qualcosa che chiamiamo libertà. Si raccontano le barzellette e gli aneddoti sul primo e unico esempio di società comunista caraibica, compresa la trasformazione delle aragoste in valuta pregiata: per lungo tempo non se ne trovavano e di conseguenza erano trattate come gioielli, come una «valuta forte» con cui venivano regolarmente scambiate. Il possesso di aragoste diventò ufficialmente un reato come quello di marijuana e dunque fiorì un mercato nero di crostacei. Per le vie dell’Avana e di Santiago uomini vecchi sussurravano «aragosta» nell’orecchio dei clienti. Per coprirsi dalla polizia c’era un sistema e una cerimonia: il pagamento avveniva in piazza e i crostacei venivano spediti separatamente a casa dell’acquirente.

Un episodio fragile fra i tanti più robusti, da rileggere senza più rancore perché ad abbattere quella dittatura non saranno, è chiaro, i fuoriusciti ma un evento naturale, biologico. Il mondo aspetta che qualcosa, muoia. Qualcuno ci racconta in modo nuovo come, forse, è nato.

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