Di Pietro nei guai vuole depistare E sforna referendum

RomaIncerto il futuro, burrascoso il presente, nebuloso il passato. Dal suo dorato cul de sac fatto d’opposizione un tanto il chilo, Antonio Di Pietro intende uscire a furor di popolo e, come un Marco Pannella de’ noantri, s’affida ai responsi popolari per disturbare il manovratore. Raggiunto il necessario di firme contro il «lodo Alfano», l’ex Pm non ci risparmia un’ondata di quesiti per divertirci con tante schede nell’urna, proprio come non molto tempo fa. Appuntamento a primavera del 2010.
Arriva al Palazzaccio - già maledetta sede del tribunale pontificio e ora della Cassazione - con due furgoni tappezzati dalla propria immagine carichi del milione di firme contro la legge sull’immunità per le alte cariche dello Stato. Duecentododici scatoloni ricontrollati dai suoi uomini sette-otto volte (quando si dice lo zelo) per scongiurare brutte sorprese: secondo i dipietristi 850mila sarebbero già certificate, e dunque ben al di sopra della quota 500mila indicata dalla Costituzione. Di Pietro gongola, e a Montecitorio spiegherà di voler «rispondere con i fatti alle parole, al chiacchiericcio della politica che non porta risultati ma che si parla soltanto addosso». Sembra un vigoroso tie’ al povero Veltroni che non ha appoggiato la raccolta delle firme, e l’ex Pm a stento si trattiene: «Il silenzio del Pd è un silenzio che parla, però non vogliamo polemizzare con il Pd, non abbiamo tempo...». Lo troverà Arturo Parisi, definendosi assai «amareggiato» per l’ignavia del proprio partito e del suo leader: «Rifiutare di battersi è già di per sé una sconfitta, rifiutare di continuare la lotta su una questione che in Parlamento abbiamo denunciato con parole quanto mai severe, equivale a trasformare una sconfitta provvisoria in una sconfitta definitiva».
Di Pietro ancora una volta assapora il gusto di essere il leader trainante dell’opposizione, che lui definisce «chiara nel linguaggio» (sic!) e «determinata nell’azione» contro «questo governo che toglie ai poveri per dare ai ricchi». Ma anche l’ex Pm capisce che un’opposizione del genere non va da nessuna parte, per cui ha bisogno sempre di «drogare» il mercato della politica. Quando non ci sono sbocchi, il referendum è come uno stupefacente a prezzo popolare, facile surrogato d’iniziativa politica: Marco d’Abruzzo l’ha insegnato, Tonino il Molisano ci arriva una trentina d’anni dopo. Così annuncia d’aver pensato a prossime crociate, senza sapere ancora bene quali: magari contro la futura legge sulle intercettazioni, forse contro la riforma scolastica, di sicuro per dire basta al finanziamento pubblico dei partiti. Ma qui, va detto, emerge la notevole differenza di statura tra i due: se Pannella tuonò contro i soldi pubblici alla politica, intascando nel frattempo il finanziamento pubblico per Radio radicale (che almeno un suo valore aggiunto ce l’ha), Di Pietro si propone di confezionare un plebiscito demagogico contro la «casta», e sputa nel piatto in cui ha appena fatto bisboccia.
Già, perché la nave corsara dell’ex Pm non è stata inventata dal nulla, fondandosi piuttosto sui rimborsi elettorali affluiti copiosi (nelle casse «proprie» e non dell’Idv, come Il Giornale ha più volte raccontato). Soldi strappati in virtù della carenza di controlli da parte della Camera dei deputati, e talora persino «scippati» ai suoi occasionali compagni di strada, come capitò ad Achille Occhetto. L’ex leader del Pci dalle Europee 2004 attende ancora dal Tribunale di Roma il ritorno di quasi tre milioni di euro intascati da Tonino illegittimamente.


Considerando l’intera parabola politica dipietrista, l’«aiutino» pubblico assomma a circa una quarantina di milioni: e ora che i soldi sono in banca o investiti in attività immobiliari, l’eleganza del gesto di Tonino traspare in tutta la sua forza plastica. Cari contribuenti, votate contro il finanziamento: chi ha dato ha dato, io ho avuto ho avuto.

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