Playout e premio piazzamento contro le squadre in vacanza

A fine stagione i bookmaker guardano con sospetto al campionato italiano che presenta un bel numero di partite insulse, pressoché inutili, o dal canovaccio improbabile. Ne scaturiscono risultati scontati da un lato e sorprendenti dall’altro, con riflessi spesso decisivi nella corsa alla salvezza. Ma è naturale che sia così con tante squadre che non hanno nulla da chiedere alla classifica e giocano in modo svogliato, senza motivazioni, giusto per onorare il calendario fabbricato in estate. Troppi i club fuori dai giochi già ad aprile, questo è il problema. E il Bari, che si batte con dignità nonostante una retrocessione annunciata da tempo, desta stupore, fa eccezione. Come? E perché? Questi gli interrogativi di un mondo che non conosce vergogna. Non dimentichiamo cos’è successo a Parma dopo la bella prova dei pugliesi al Tardini. La regolarità del campionato corre sul filo della credibilità. Ma non si può andare avanti all’infinito in questo modo. I rimedi esistono. Eccone due esempi.
Innanzi tutto ci vorrebbero i playout, in B coinvolgono almeno una decina di squadre fino all’ultima giornata. Potrebbe essere così anche nella serie maggiore. Il progetto, sul tavolo da anni, stride con un format che prevede un torneo lunghissimo per la presenza di 20 squadre e lo svolgimento di 38 giornate. A quando un ripensamento? A due turni dalla fine, ci sarebbero ben nove squadre sulla graticola. Neppure il Cagliari con 44 punti potrebbe dirsi fuori da ogni pericolo. Solo il Bari sarebbe già spacciato. Spetterebbe poi ai playout definire le altre due retrocessioni mettendo a confronto penultima, terz’ultima, quart’ultima e quint’ultima.
Esiste poi un’altra opportunità per rendere più credibile l’ultima parte della Serie A ed evitare figuracce all’interno della sua Lega. Basterebbe cambiare la suddivisione dei diritti tv, cancellare i bacini d’utenza e premiare in modo consistente la posizione in classifica. Al momento la legge prevede questa spalmatura: il 40% in parti eguali fra tutte le squadre; il 10% in base ai piazzamenti dal 1945-’46 al 2004-’05; il 15% in base ai piazzamenti degli ultimi 5 anni; il 5% in base alla popolazione della città di appartenenza; il 25% in base al bacino d’utenza e il 5% in base alla classifica finale. In Inghilterra è tutto più semplice: il 50% viene diviso in parti uguali tra tutte le squadre, il 25% secondo la classifica finale e l’altro 25% in relazione alle partite trasmesse in tv. In apparenza il sistema britannico appare democratico, in realtà va incontro ai grandi club che si piazzano meglio in classifica e vanno più spesso in tv. Sarebbe l’ideale anche per la Serie A. Ma noi italiani siamo troppi bravi a incartarci. E così la legge della sciura Melandri s’è inventata i bacini d’utenza che non hanno nulla d’erotico, ma valgono 200 milioni e riescono a far litigare i nostri club da tre anni sulla loro definizione: ci voleva Mandrake per capire che le esigenze delle grandi società avrebbero fatto a cazzotti con le voglie di tutte le altre?
Lo scenario cambierebbe, e di molto, se la classifica dispensasse 250 milioni invece degli attuali 45 con differenze sensibili fra un piazzamento e l’altro. I presidenti si armerebbero di frustino per incitare tecnici e giocatori a dare il massimo in qualsiasi partita. E, nei contratti dei calciatori, la parte mobile dello stipendio avrebbe un peso non indifferente. Nessuno si azzarderebbe a rifugiarsi dietro la mancanza di motivazioni.

In Premiership, per inciso, ogni posizione vale 752 mila sterline (circa 860mila euro) più di quella precedente: ai primi vanno 15 milioni e 40 mila sterline, agli ultimi 752 mila sterline. E allora, cari presidenti, finitela di litigare e, se ritenete interessante questa proposta, giratela al Governo per cambiare la norma. Dai bacini d’utenza si passerebbe ai bacini d’amore.

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