I dati Ocse sull’economia continentale e più direttamente su quella italiana per il 2024-2025 sono in chiaroscuro. C’è una mini crescita del Pil, ma i rischi sui conflitti internazionali e le tensioni su materie prime ed energia, ne mitigheranno i già limitati ritorni. I quali saranno sotto la scure dell’inflazione per i prossimi 4-5 anni, prevista intorno al 2,5%, ma solo nel 2025-26 tornando intorno al 2-2,5%. Permarrà, inoltre, l’esigenza di smaltire quel 25% complessivo di inflazione degli anni precedenti, andando a pesare sulla capacità e propensione alla spesa della grande maggioranza delle famiglie italiane.
Parimenti il debito pubblico, causa l’aumento dei tassi, sicuramente sfonderà i 3 trilioni di euro che, in presenza di un Pil con una crescita insufficiente, come è quella sotto il punto percentuale annuo, sarà un gran rompicapo per le manovre di sviluppo che il Governo vorrà e dovrà mettere in campo. In questo complesso scenario ci saranno altre componenti a destare preoccupazione e riguarderanno principalmente l’industria manifatturiera presente in Italia, in gran maggioranza espressa in filiere, sovente raccolte in distretti, fornitrice di componentistica; in molti casi sempre meno specializzata e quindi più a rischio di competizione con paesi stranieri, in cui il costo del lavoro è meno oneroso e la produttività è più elevata. Una filiera le cui sorti sono sempre più dipendenti da committenti esteri e da private equity, anch’essi esteri, e che avrà la necessità di investire in modernizzazione a fronte di marginalità contenute e tempi di pagamento non certo celeri.
I sintomi di una sostanziale difficoltà per le Pmi e le micro imprese sono ormai evidenti, le crisi aziendali portate al ministero del Made in Italy sono in crescita esponenziale, le difficoltà a trovare soluzioni, già difficili oggi, peggioreranno.
Uno dei poli di massima importanza per il nostro sistema industriale, quello dell’automotive, per trasporto merci e persone, è ormai da ben oltre un anno in ambasce.
Le attività sono ormai marginalizzate alla componentistica più elementare, mentre quella indispensabile, riguardante l’elettronica e il software, ci vede molto meno presenti. Il primo ordinante, la franco-italiana Stellantis, pur essendo tra le case più apprezzate dai mercati finanziari con un deciso «Buy» («acquistare») da parte degli analisti, grazie a ricavi e dividendi generosi, se ne guarda bene di sostenere la filiera. Le tedesche sono anch’esse non certo generose ma almeno offrono molte più certezze e consentono più marginalità ai fornitori. Difficile invertire la rotta, o meglio il Governo per farlo dovrebbe definire le basi di una politica industriale che affida un ruolo sostanziale all’automotive, come era nel precedente secolo. Per darvi attuazione servirebbero misure fiscali e burocrazia particolarmente accomodanti, in modo da stimolare i maggiori gruppi a produrre in Italia. Nel farlo, però, sarà necessario agganciare l’erogazione dei vantaggi ai volumi d’affari prodotti in Italia e al mantenimento dell’occupazione, la quale andrà convertita a spese delle case produttrici beneficiarie della politica fiscale, in modo da prevederne una crescita meno generica e più specializzata, e parimenti attuare investimenti in innovazione tecnologica.
L’attuale situazione del comparto, in assenza di sostanziosi e dinamici correttivi, è destinata ad un sostanziale peggioramento della filiera e di interi distretti e di riflesso dell’occupazione diretta e indotta.
I circa 200mila addetti e le 10mila imprese di produzione e commercializzazione contribuiscono alla formazione del Pil per circa l’11%, che potrebbe scendere di due, forse tre punti. Motivazioni sufficienti a stimolare il Governo ad essere propenso ad una politica incentivante per nuovi insediamenti e mantenimenti degli esistenti siti produttivi.
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