“Quando Castro cucinò le aragoste”. L'intervista a Lamberto Dini

L'ex presidente del Consiglio Lamberto Dini racconta in esclusiva alcuni dei più importanti episodi della sua lunga vita istituzionale

“Quando Castro cucinò le aragoste”. L'intervista a Lamberto Dini

Il presidente Dini, apre le porte del suo grande studio vicino Palazzo Madama, nel cuore della Roma politica di cui è stato uno dei massimi protagonisti: ministro del Tesoro, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, senatore e vicepresidente del Senato. Da una stanza all’altra è un viaggio senza tempo, tra libri di storia, politica ed economia con alle pareti numerose foto con i leader mondiali incontrati negli anni, da Giovanni Paolo II a Bill Clinton, da Cossiga e Gheddafi. C’è però una figura a cui è legato da un affetto particolare: l’ex presidente americano Clinton (“un uomo molto simpatico e dalla facilità dei rapporti umani”).

Senatore, dalla Firenze del dopoguerra al Fondo monetario internazionale. Poi Banca d’Italia, Palazzo Chigi e Farnesina. Una vita ai vertici delle istituzioni.

“Sono nato e cresciuto a Firenze, dove mi sono laureato in scienza delle finanze con il professore Cesare Cosciani, un grande della materia. Sono poi andato a Roma, divenni assistente all’università ed entrai all’Ufficio studi della Banca Nazionale del Lavoro. Ritenni però che dovevo continuare a studiare e accrescere quanto appreso negli anni dell’Università. Ottenni una borsa di studio Fullbright e successivamente la Stringher della Banca d’Italia per studiare negli Stati Uniti. Andai prima all’Università di Minnesota e poi di Michigan, dove studiavo per una libera docenza in Italia. Ricevetti però inaspettatamente una telefonata dal Fondo monetario che stava cercando un giovane economista. All’epoca, credo sia ancora così, non si entrava soltanto sulla base di titoli o “giudizi” di altri, ma veniva fatta un’accurata selezione con interviste di cinque direttori di differenti dipartimenti del Fondo. E ognuno scriveva il proprio giudizio. Se il giudizio era positivo si accedeva, altrimenti uno poteva anche essere figlio del presidente della Repubblica ma non entrava”.

Quale era il suo ruolo all’interno del Fmi?

“Prima da economista in vari dipartimenti del Fondo, poi da direttore esecutivo rappresentavo l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e Malta. Sono venti i direttori esecutivi del Fondo che rappresentano il mondo intero. Sono stato in America quasi venti anni, anche se mi relazionavo con le autorità italiane, specie la Banca d’Italia, i ministri del Tesoro”.

E l’avvento in Banca d’Italia?

“Siamo nel 1979 e ci fu la crisi della Banca d’Italia, quando magistrati irresponsabili, attaccarono il governatore Paolo Baffi – grande studioso - e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli che furono costretti alle dimissioni. Alle quattro di mattina ricevo una telefonata del presidente del Consiglio Francesco Cossiga - non accortosi delle ore -:“Dini, dovrebbe venire subito a Roma perché le devo parlare”. “Va bene presidente”, risposi, “mi faccia vedere un attimo”. “No, no, venga subito!” mi intimò. Una volta a Roma mi dissero che volevano che diventassi direttore generale della Banca d’Italia. Dove rimasi per quindici anni”.

Con quali ministri del Tesoro della Prima Repubblica ebbe modo di collaborare in particolare?

“Uno è stato Emilio Colombo, eminente politico democristiano e Gaetano Stammati. Questi sono stati i due ministri con i quali io ho trattato in quel tempo in Italia”.

Si racconta che i rapporti con il governatore Ciampi non fossero proprio idilliaci.

“Avevamo due formazioni molto diverse. Lui era simpatizzante per il Partito d’Azione, aveva studiato lettere alla Normale di Pisa, con il professor Calogero, di sinistra; io per gli studi che avevo fatto ero di una formazione liberaldemocratica che rappresenta ciò che è l’economia moderna. A volte vedevo le cose in una certa maniera, lui in un’altra. Sempre lunghe discussioni. Ciampi non era un economista, quindi doveva sentire un po’ tutti per farsi un’idea delle cose da fare. Io invece avevo la mia impostazione. Però i rapporti sono sempre stati molto cordiali”.

Lei si definisce di impostazione liberaldemocratica. Quali sono le figure a cui si è ispirato dal punto di vista economico e politico nel corso della sua lunga carriera?

“Penso al professore Federico Caffè che poi è sparito, a Fausto Vicarelli, Ezio Tarantelli, Franco Modigliani – quando veniva a Roma – e ad altre figure vicine alla Banca d’Italia che in un certo senso hanno portato avanti questa impostazione di studio e di politica economica”.

Come mai non venne promosso governatore della Banca d’Italia?

“Nel 1993, Carlo Azeglio Ciampi fu chiamato a fare il presidente del Consiglio - in una situazione delicata. Lui non fece un governo tecnico, era un tecnico con maggioranza politica -. Si aprì il problema della successione in Banca d’Italia. Le forze politiche dominanti in quell’epoca erano i democristiani, e colsero l’occasione per fare l’assalto alla Banca considerata una roccaforte laica. Quindi per la prima volta volevano un cattolico. Le due persone in corsa eravamo io e Antonio Fazio, che fu eletto. Il motivo? Lui era tra l’altro più cattolico di me”.

Perché la Dc che governava da quarant’anni, ed era stata numericamente ben più forte rispetto al ’93, non aveva mai imposto un cattolico nelle precedenti nomine?

“C’era rispetto per determinate personalità come nel caso di Paolo Baffi che era succeduto a Guido Carli. Questi erano i nomi. Non si mettevano in dubbio fino agli anni ’90. Un partito non può soltanto pensare all’orientamento politico della persona ma deve valutarne le capacità e c’era grande rispetto per questi personaggi”.

Il mondo bancario chi temeva di più come politico?

“Andreotti”.

E il dominus di Mediobanca, Enrico Cuccia?

“Era rispettato e un po’ temuto”.

Un po’ o molto?

“Temuto. Ed effettivamente era un deus ex machina che imponeva le decisioni alle altre banche. Faccio un esempio. Il potere di Mediobanca era Enrico Cuccia e aveva una fortissima influenza sulle altre banche. Tant’è che se c’era da fare un aumento di capitale, Cuccia diceva quanto ognuna delle banche doveva contribuire. Questa era la sua forza”.

Quale idea si fece del fallimento del Banco Ambrosiano? (1982). La Banca d’Italia venne spesso tirata in ballo per scarsa vigilanza sulle operazioni di Calvi.

“No. Questo non è giusto. Invece va detto che il signor Calvi si rifiutava di fornire le informazioni che la Banca d’Italia gli chiedeva in particolare sulle sue attività all’estero. Ha sempre rifiutato di dare le informazioni. Purtroppo poi è venuto fuori, a parte i rapporti con il Vaticano, di cui si può discutere, che era nelle mani della P2 e quindi i faccendieri della P2 sono quelli che lo hanno portato alla fine”.

Il suo governo del ’95 si può definire come il primo governo tecnico dell’Italia repubblicana?

“Sì. Perché è stato il primo governo composto esclusivamente da persone della società civile. Senza nessun parlamentare, né come ministro, né come sottosegretario.”.

Che rapporti aveva con il presidente della Repubblica Scalfaro?

“Ottimi. Io ho ancora lettere e ricordi di Scalfaro. Rapporto di grandissima stima. Nel ’95 quando ero presidente del Consiglio, avevo tenuto l’interim del Tesoro, anche se lui mi diceva: “Sei sicuro di fare tutte e due le cose? È molto gravoso”. E io: “Presidente così non litigherò con il mio ministro del Tesoro!”.

Come si sviluppano i rapporti tra il presidente del Consiglio e il Quirinale? C’è una forte collaborazione?

“Forte collaborazione. Sia direttamente con il presidente della Repubblica, sia con il segretario generale. I rapporti sono continui perché c’è un contatto diretto anche su singole questioni. Ogni giovedì mattina c’era l’incontro tra i due presidenti. Una prassi che va avanti ancora oggi”.

Nel 1995 partecipa al suo primo G7 in cui tra l’altro c’erano: Kohl, Clinton, Chirac, Major. Ha qualche ricordo o aneddoto?

“Con Jaques Chirac c’era un ottimo rapporto, anche conflittuale, però di rispetto. Quando io ero al governo nel ’95 la Lira era entrata sotto pressione e tendeva a deprezzarsi sul mercato. Chirac era furente perché mi diceva che questo impediva l’esportazione del bestiame vivo della sua regione verso l’Italia. E accusava me come governo di essere dietro la svalutazione della Lira. Mi chiamava “Monsieur Dini”, allora fece fare una ricerca-esame dalla Commissione Europea per verificare se c’era stata un’azione del governo nel deprezzamento della Lira. E quello fu negativo. Da quel momento mi chiamò “Mon cher ami”. Bill Clinton aveva una straordinaria capacità di empatia con le persone che incontrava. Le varie volte in cui lo incontravo diceva, “Lamberto how are you?, “How have you been?" ("Lamberto come stai? Come sei stato").

Major?

“Lui si trovò nell’assalto alla Lira e alla Sterlina da parte di George Soros, con la moneta inglese che fu svalutata e quindi ne uscì politicamente male, però è stato un personaggio di tutto rispetto. Figlio di trapezisti, ricordo che una sera in Canada - ero presidente del Consiglio, c’era stato un G7 - c’era Il Cirque du Soleil, e lui sedeva accanto a mia moglie, e quando c’erano i trapezisti prendeva la mano di mia moglie perché gli tornavano in mente le gesta e acrobazie dei genitori”.

La Thatcher ha avuto modo di incontrarla? Lei in Italia ha avuto buoni rapporti con il ministro Filippo Mario Pandolfi.

“Sì, anche se ero sempre in Banca d’Italia. La Thatcher divenne primo ministro inglese nel 1979 e fu chiamata la “Lady di ferro” perché riuscì laddove tutti i governi inglesi erano caduti: la questione dei minatori. Lei accettò – con il carbone a quell’epoca importante nella produzione di energia elettrica – lo scontro con i minatori, vinse e fece sopportare all’Inghilterra uno sciopero che durò quasi diciotto mesi. Di Pandolfi ricordo un fatto molto bello: mi regalò dei libri con bellissime dediche di ammirazione. Io ero in Banca d’Italia e su un volume del Palazzo delle Finanze scrisse Un giorno Lei occuperà questa posizione di ministro del Tesoro".

Durante i governi di centro-sinistra, da Prodi ad Amato fu ininterrottamente ministro degli Esteri (1996-2001). Una missione importante fu quella di avvicinare l’Italia alla Libia di Gheddafi.

“A Palazzo Chigi non mi sono mai occupato di Libia. Arrivato al vertice della Farnesina, la Libia era sotto sanzioni, perché come nel caso di altri paesi, si diceva che stesse fabbricando armi di distruzione di massa, nucleare ecc… Quando poi Gheddafi riuscì a dimostrare che non era così, le sanzioni delle Nazioni Unite vennero tolte, e il giorno dopo la loro rimozione presi l’aereo e andai in Libia. Gheddafi, aveva un forte risentimento contro l’Italia anche per cause personali che risalivano al tempo del generale Graziani. Dopo un importante lavoro diplomatico, tale risentimento fu superato e stabilimmo ottimi rapporti economici e commerciali, mi disse: “Ora che i rapporti di amicizia sono stati stabiliti, la Libia è pronta a vendere tutto il suo petrolio e gas soltanto all’Italia. E importare dall’Italia tutto quello di cui la Libia ha bisogno”.

Kissinger?

“L’ho incontrato per la prima volta a Roma - a cena - a casa dell’avvocato Agnelli. Eravamo solo noi tre. E poi varie volte a New York dove lui abita e ha il suo ufficio”.

Lei è stato anche nella Cuba di Fidel Castro.

“Una visita molto bella. Ricordo che l’ambasciatore italiano fece una cena e invitò Castro che si sedette accanto a mia moglie, entrambi parlavano in spagnolo. E siccome mia moglie aveva visitato in quei giorni il territorio, aveva notato le cattive condizioni in cui versavano i campi di riso. Così dette a Castro alcuni consigli. Lui, molto carino disse: “Allora, se lei viene qua la nomino ministro dell’Agricoltura”. A cena furono servite aragoste, ma il leader cubano affermò con convinzione: “Le più buone le cucino io”. Così, la sera dopo io e mia moglie fummo invitati al palazzo, e lui cucinò le aragoste. Molto buone! Personaggio simpatico”.

Nonostante i 90 anni passati Lei continua a lavorare, scrivere e viaggiare con una straordinaria lucidità e vitalità. C’è un segreto dietro questa sua longevità?

“Non so,

non credo, forse fattori biologici. Ma come mi diceva Berardi, famoso architetto fiorentino, “con l’invecchiare succedono tre cose. Ci si sente di meno, ci si vede di meno e la terza cosa non me la ricordo più”.

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