Chissà se, ora che è morto, a 98 anni, le ultime volontà di Carlo Vichi - storico fondatore del marchio Mivar - saranno rispettate alla lettera: «Per i miei funerali voglio una bara di legno povero in mezzo al nuovo stabilimento. Indosserò solo maglietta e pantaloncino. L'ultima frase sarà: A noi!, poi partirà la musica di Faccetta nera. Solo allora la festa avrà inizio. Sono invitati tutti i cittadini di Abbiategrasso. Ad eccezione di autorità e politici».
Quando il patriarca compì 94 anni, per la sua unica (e ultima) intervista, scelse noi del Giornale. Fu un'esperienza incredibile. Alla corte di un personaggio eccezionale. Tanto unico da sembrare appena uscito da una macchina del tempo uscita fuori strada. La sua prima domanda fu: «Ma tu sei fascista, vero?». Se avessimo risposto «No», l'intervista avrebbe preso una brutta piega; quindi rispondemmo con un poco virile: «Abbastanza». Il patriarca ci fulminò con uno sguardo tra scetticismo e pietà, poi - mosso a compassione - ci invitò a colazione. Ci ritrovammo così all'interno di una sterminata sala-mensa con centinaia di «tavoli ad altezza variabile» (da lui stesso brevettati); però un solo posto era occupato: il nostro. Unici commensali: lui, l'amata moglie Anna Maria, l'adorata figlia Luisa, il fedele factotum Rocco e uno sfigatissimo cronista. In quella stessa sala, nei decenni d'oro (anni '60-'70-'80), quando dallo stabilimento di Abbiategrasso uscivano 5 mila televisori al giorno, pranzavano e cenavano fino a mille operai. Vichi li conosceva uno ad uno e li considerava persone di famiglia. Sentimento ricambiato. Una simbiosi - quella tra i vertici aziendali (cioè «Il Vichi», e basta) e le maestranze - capace di scompaginare qualsiasi teoria codificata sui rapporti industriali. La scuola di pensiero economico del «Dux Carlo» era piuttosto basica: qui comando io, ma lo faccio per il bene comune. Tutti i miliardi (di lire) guadagnati in mezzo secolo di attività sono stati infatti sempre reinvestiti per migliorare, attraverso la qualità del prodotto, la qualità della vita dei dipendenti. Anzi, di intere generazioni di dipendenti, considerato che alla Mivar - «La fabbrica delle tv più affidabili del mondo», recitava lo slogan - sono state assunte complessivamente oltre 6 mila persone: parenti (e conoscenti) di chi era andato in pensione conquistandosi anche questa preziosa forma «extra» di buonuscita. «Dux Carlo» (proverbiale la sua ammirazione per Mussolini) aveva quindi creato una comunità ideale dove il «dittatore» si identificava nell'opera dei «sudditi» e i «sudditi» in quella del «dittatore». Miracolo di classe reso possibile dal fatto che il «dittatore» si comportava, 24 su 24, esattamente come i suoi «sudditi». Lavorando con loro, fianco a fianco, e indossando la stessa tuta blu. Vichi avrebbe potuto permettersi un'esistenza da super ricco, eppure ha imposto (a lui e ai suoi cari) una vita francescana. Unico «lusso»: il lavoro.
Per 70 anni di fila. Anche quando, dal 2013, la Mivar chiuse sotto il peso della concorrenza dei giganti dei «pixel asiatici». Una favola conclusasi proprio quando era stato ultimato il nuovo stabilimento-modello (120 mila metri quadrati). Vichi ce lo fece visitare con orgoglio, descrivendolo padiglione per padiglione. Fino al giorno prima di morire, ha ordinato che quei cancelli fossero aperti come se la vecchia fila di operai potesse, per incanto, riemergere dal passato.
In un Paese normale un imprenditore di talento come Vichi sarebbe stato sommerso da benemerenze, attestati, finanziamenti pubblici, ospitate in tv («Io i televisori li costruisco, ma in televisione non ci sono mai andato»).Al momento dei saluti, l'ultima stoccata: «Nessuno mi ha mai regalato nulla. Ma ne sono orgoglioso. Perché il palazzo del potere fa schifo. Scrivetelo sul Giornale».
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