Dove sono finiti gli Agnelli? Dov'è finita Torino? Chiusura di un'epoca? Tramonto di una dinastia? La narrazione superficiale riferisce di una realtà smarrita, se non del tutto esaurita con la scomparsa di Gianni, Umberto e Susanna Agnelli, punti di riferimento di un'araldica secolare che vede oggi nuovi interpreti ma, in verità, solo uno saldamente alla guida, John Elkann, diverso da chi lo ha preceduto, distante se non opposto al nonno che ha rappresentato, per anni, il punto di riferimento del principale gruppo industriale italiano e di un modo glamour di essere e di vivere, un vero e irripetibile ambasciatore italiano. Il resto è, per scelta, un passo di fianco. È come assistere allo stesso film ma con un regista e uno sceneggiatore differenti.
Gli ultimi episodi di cronaca spiazzano il romanzo torinese: vicende di respiro condominiale, la questione dei quadri d'autore, Picasso, Monet, Bacon, De Chirico, Balthus misteriosamente sottratti all'eredità, secondo la denuncia di Margherita de Pahlen, figlia dell'Avvocato Gianni, l'azione dei detective incaricati di ritrovare le tele, il vano sopralluogo della Procura di Milano e dei magistrati svizzeri nel deposito di Chiasso che avrebbe dovuto conservare le preziose opere, trovando invece i locali vuoti, la ormai storica causa della stessa Margherita contro i figli John, Lapo e Ginevra sugli accordi del 2004 sul patrimonio di famiglia. E ancora, il malinconico epilogo della presidenza di Andrea Agnelli alla Juventus e il crollo contabile del club con la relativa fase giudiziaria, il bizzarro articolo scritto da Alain Elkann e pubblicato sulle pagine di Repubblica, uno dei fogli del gruppo Gedi di proprietà del figlio John, la vendita degli uffici direzionali del Lingotto che furono di Gianni e poi di Umberto, compongono un collage scolorito e lanciano coriandoli bagnati di una belle époque che non esiste più.
Un'epoca che si è trasformata vent'anni fa, quando la Fiat si trovò sull'orlo dell'abisso, i conti prossimi al fallimento, prima della svolta e della scossa imprenditoriale realizzate da Umberto Agnelli e soprattutto dall'uomo da lui indicato, Sergio Marchionne. Furono quelli i giorni dello smarrimento di alcuni, Margherita fra questi, terrorizzati se non convinti che l'azienda sarebbe finanziariamente crollata, destinata allo stesso epilogo della Parmalat. Fermento che suggerì alla figlia dell'Avvocato di uscire dal gruppo, cedendo le sue azioni e ricevendo il dovuto, due miliardi e mezzo di euro oltre a vari immobili, per scoprire, negli anni successivi, che il valore delle azioni vendute si era moltiplicato più volte. Da qui il tentativo di ribellarsi al presunto sopruso, un complotto ordito dai figli e dalla madre, poi defunta.
Una storia acre e misera per un'araldica illustre ma che, per chi conosce i meccanismi di quel mondo, sarebbe conseguenza dei rapporti deboli, se non inesistenti, tra padre e figli, Edoardo e la sua tragica fine, con il suicidio dal ponte di Fossano, e Margherita, la «bambinaia» come l'Avvocato l'aveva definita dopo l'ottavo parto, con piccole vendette nei confronti di John e Lapo (cui venne negato l'accesso alla dimora di Villar Perosa). La storia ha attraversato fasi diverse con un solo gol, quello di rilanciare il gruppo, di ridare luce a un'azienda decotta, di consolidare e ricompattare la stessa unità di famiglia.
C'è stata, poi, la Juventus. Che non è soltanto una squadra di calcio, è il distintivo sportivo degli Agnelli, anche questo passato da bilanci passivi a conti attivi e progetti forti, nella fase imprenditoriale disegnata e rilanciata da Umberto e dalla sua squadra di professionisti, Antonio Giraudo fra questi, per essere trasferita, traumaticamente, dopo lo scandalo del 2006, definito impropriamente «Calciopoli», all'unico membro tifoso e disponibile: Andrea Agnelli, capace di grandiosi risultati calcistici - nove scudetti consecutivi rappresentano un unicum difficilmente ripetibile - ma, al tempo stesso, attore di una lenta e inesorabile caduta nelle sabbie mobili di bilanci drammatici, nonostante ricapitalizzazioni per 500 milioni da parte di Exor, la holding olandese cui fa capo, diciotto consigli di amministrazione convocati in un solo anno, la vergogna per le vicende giudiziarie, per arrivare all'acida definizione interna di «società fuori controllo» con l'ipotesi, sempre più verosimile, di una vendita del club la cui condizione contabile - perdite per 240 milioni, ricavi inferiori a 600 milioni, debiti addirittura superiori e un valore di Borsa di 800 milioni - pesa in modo non sostenibile su Exor. Che, per l'appunto, non vuole più addossarsi l'impegno di sovvenzionare il club-idrovora. Un asset da riequilibrare, ripulire e mettere sul mercato per un valore base di non meno di un miliardo e mezzo, impresa non facile ma non più impossibile, a chiudere un secolo di storia gloriosa e infine sventurata. Nel frattempo anche Andrea ha trasferito armi e bagagli in quel di Amsterdam (Exor intanto smentisce l'ipotesi della vendita).
C'è poi il fronte editoriale, un settore che faceva parte degli interessi adolescenziali di John Elkann e che poi si è realizzato in modi e investimenti bizzarri. Sicché, a fianco della Stampa, il quotidiano di famiglia, storicamente filogovernativo, che ha via via assunto posizioni oltranziste inimmaginabili solo tre o quattro anni fa, è arrivata Repubblica, una sorta di capriccio snob o forse un gioco strategico per portare a casa il consenso quotidiano di quella parte, che però produce risultati, politici e contabili, non proprio lusinghieri: ma il prodotto è tale e non si può cambiare, dicono gli ambienti torinesi, che però possono esibire l'Economist come foglio di censo internazionale. E, a proposito di risultati, se la Ferrari scuderia è evidentemente fuori giri, da qualche tempo l'azienda stravince nei gran premi finanziari con un valore di Borsa che ormai supera i 50 miliardi, a fronte di ricavi per 5,1 miliardi.
Torino non è più al centro dell'interesse degli Agnelli, quella che era la Fabbrica Italiana Automobili Torino si è trasformata in una società di investimento con sede olandese e diverse partecipazioni anche in società del lusso (Louboutin) e medicali (Mérieux, Lifenet, Healthcare), un respiro nuovo che ha portato Exor a una solidità certa, oltre 41 miliardi di ricavi aggregati con un utile di 4,2 miliardi e un valore di Borsa pari a 20 miliardi. Il paragone o il ritorno nostalgico ai tempi di Fiat padrona del mercato dell'auto, ai fotogrammi dell'Avvocato che sorvola la città dal suo elicottero, al suo glamour da dolce vita, al prestigio della casa madre, sono argomenti da museo: oggi il carisma non fa business e conduce, invece, al tracollo. Tramonta anche il tempo delle celebrazioni idolatriche dei membri della dinastia, i soli numeri che contano sono quelli che si trovano nella casella in basso a destra dei bilanci.
Se la realtà si è trasformata, il futuro è ancora da scrivere e passerà da ulteriori cambiamenti, forse anche clamorosi. «Quel che val bene per la Fiat, val bene per l'Italia», il motto di Vittorio Valletta sembra lontano un millennio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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