Agricoltori e piccoli imprenditori italiani minacciati da importazioni senza regole

Le intese con l'Africa penalizzano il settore degli agrumi e non favoriscono i prodotti a chilometro zero. E l'inquinamento vola

Agricoltori e piccoli imprenditori italiani minacciati da importazioni senza regole

Mentre i grandi del pianeta dal G20 al Cop26 discutono alla ricerca di soluzioni per ridurre l'inquinamento e combattere il surriscaldamento globale, gli agricoltori e i piccoli e medi imprenditori italiani (così come i cittadini) si interrogano sulla sostenibilità sociale ed economica per l'Occidente dell'attuale modello commerciale e di quello che si vorrebbe realizzare. Quesiti che nascono non da previsioni o allarmi (talvolta infondati), bensì dalle problematiche a cui devono far fronte quotidianamente.

Come biasimare un agricoltore del Sud Italia costretto a sorbirsi i proclami in materia ambientale quando nel concreto il suo costo per raccogliere la frutta e la verdura è quasi superiore al guadagno ottenuto rivendendola. Emblematico il caso del settore agrumicolo in cui l'Italia, patria degli agrumi, soffre un import pari al 19,8% dall'Africa. Ciò è dovuto all'accordo tra l'Unione europea e gli Stati della comunità per lo sviluppo dell'Africa australe-Sadc siglato nel 2016. Dopo la stipula dell'accordo, gli agrumi dell'Africa del Sud hanno invaso i nostri mercati causando un crollo del prezzo di vendita dei prodotti italiani. Oltre a ciò, dai controlli sanitari effettuati sulle importazioni sudafricane, è stata rilevata la presenza di parassiti con il rischio che si diffondano anche nelle nostre produzioni. Mentre gli agricoltori italiani devono rispettare le stringenti regole comunitarie con un aggravio dei costi, importiamo frutta e verdura con poche garanzie sotto il punto di vista fitosanitario. C'è poi l'impatto ambientale del trasporto dall'altra parte del mondo: è questo il concetto di agricoltura a chilometro zero e sostenibile di cui tanto si parla?

Non va meglio nel mondo imprenditoriale con la crisi delle materie prime che rappresenta non solo un problema economico ma anche ambientale poiché l'impatto dell'importazione di prodotti da nazioni distanti migliaia di chilometri è notevolmente superiore anche perché in molti di questi Paesi (Cina in primis) non si rispettano le regole ambientali imposte alle aziende italiane.

Secondo il report annuale della Fondazione Italia-Cina, l'import italiano di beni e servizi cinesi per il 2020 ammonta a 32,1 miliardi di euro con un deficit commerciale dell'Italia di 10,7 miliardi.

Il paradosso è che dipendiamo dalla Cina anche nelle nuove filiere industriali derivanti dalla transizione ecologica, il caso delle batterie è eclatante. Per realizzarle è infatti necessario il litio, un materiale raccolto in miniere in gran parte di proprietà cinese, lo stesso dicasi per il cobalto.

Finché non si rivedrà un modello economico basato su questi criteri, non si potranno risolvere né gli attuali problemi socio-economici né l'inquinamento e il surriscaldamento globale.

Non si tratta di promuovere una visione proibizionista o contraria alla globalizzazione, quanto correggere determinate storture del processo economico che hanno determinato uno svantaggio commerciale sempre più marcato dell'Occidente a favore della Cina. Tutto ciò mentre le emissioni dell'Europa negli ultimi vent'anni sono diminuite mentre quelle cinesi sono più che triplicate diventando quasi il 30% a livello globale.

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