Il Paese Italia in questo momento è impegnato a gestire una quantità significativa di danari. Non si sono mai visti tanti danari tutti assieme dopo il piano Marshall. La straordinarietà del momento si evince anche dal fatto che siamo ben alla quarta autorizzazione data dal Parlamento di agire con uno scostamento di Bilancio. L’Italia sta gestendo 200 miliardi di euro (di cui 80 trasferiti direttamente, la parte restante a debito) di recovery fund: sono soldi presi in prestito da restituire, per un Paese che dall’indagine Ocse del 2019 è risultato essere il terzo paese al mondo per indebitamento pubblico. Non è cosa da poco 62.700 dollari a testa di debito. È una partita enorme quella che dobbiamo gestire; è evidente che non esistono le ricette ma occorrono dei punti di riferimento, se non addirittura una stella polare che indichi dove il Governo intende andare e portare il Paese. Quale è questo principio cardine? La risposta può essere la politica di elargire “un po’ di soldi per tutti?”. Dunque può essere la logica del sussidio? La domanda è aperta: dipende da quale futuro immaginiamo e da qui occorre ridisegnare il Welfare di cui in queste ore l’Italia ha bisogno.
Premesso che lo Stato nasce per garantire la convivenza civile, quindi la giustizia e la sicurezza, che favoriscono – ma anche presuppongono - una vita dignitosa, sarebbe opportuno che si ripartisse da una valorizzazione del privato che in una sana economia di fatto incentiva la sussidiarietà orizzontale. Il ruolo dello Stato è quello di una sussidiarietà verticale talvolta indispensabile nelle emergenze. Quando il privato è in affanno, a determinate condizioni lo Stato interviene sulle povertà “transitorie”. Lo Stato deve fisicamente salvare i bisognosi, ma anche stimolare chi resiste a fare del proprio meglio.
Pensiamo alla cassa integrazione in deroga, che garantisce sicuramente un minimo di sostentamento vitale, ma non consente al disoccupato di cercare un nuovo posto di lavoro, altrimenti perde il sussidio. È evidente che non c’è crescita economica se non c’è la possibilità per le persone di incontrarsi, comunicare, produrre reddito. Lo Stato deve solo dare un paracadute a chi non ce l’ha, e mettere chi ce l’ha in condizione di usarlo. E magari di produrlo per altri. Se guardiamo con queste semplici lenti la legge di Bilancio, risulta immediato che lo Stato decide a propria discrezione di elargire bonus a varie singole categorie, dai cuochi agli idraulici, dalle imprese tessili alla MM di Brescia. In sostanza lo Stato decide dove mettere i soldi con una minuziosità di interventi sui singoli. Una linea che emerge anche dai numerosi emendamenti, che non hanno una strategia progettuale, ma che appaiono come affannosi aiuti a quei singoli che giustamente hanno bussato con più costanza per ottenere una boccata di ossigeno.
Ma deve essere questo il ruolo dello Stato che traghetta il paese fuori dalla crisi e che permette all’Italia di ritornare ad essere protagonista in Europa? Certamente non è da oggi che si assiste ad uno Stato che interviene in questi termini, ma certamente la situazione odierna è resa drammatica dalla crisi e dai tanti danari che per la prima volta è chiamato a gestire tutti insieme. Emerge quindi con evidenza che lo Stato deve tornare alle ragioni della propria esistenza e recuperare le funzioni prioritarie ed essenziali che gli competono, ristabilendo quel rapporto fiduciario fra i cittadini e le Istituzioni che si è deteriorato lungo questi mesi. Lo Stato quindi, in linea generale e ancor più ora, dovrebbe mettere i soldi per chi senza Welfare non avrebbe una rete protettiva, cioè per chi non ce l’ha in modo continuativo - pensiamo ai disabili – o per chi l’ha persa in questi mesi - pensiamo ai nuovi poveri che le 300 mila imprese in meno hanno generato, ai 200 mila autonomi con partita iva che non ce l’hanno fatta, al 7% dei dipendenti che aspetta la cassa integrazione…
Quindi oggi serve certamente un Welfare sociale per uscire dalla pandemia economica. Un welfare sociale capace di coniugare sopravvivenza e libertà. Un welfare che non si esprima solo con l’erogazione diretta del servizio, ma che permetta ai cittadini, attraverso un voucher, o un bonus, o un portfolio, di spenderlo nei servizi che desiderano, erogati da soggetti differenti. Solo in quest’ottica capiremo le ragioni per le quali la scuola anche il 7 gennaio non potrà ripartire per tutti, continuando ad escludere le classi sociali più fragili come i disabili e quelle più deboli per estrazione culturale ed economica. Una turnazione degli ingressi a scuola degli studenti che non tiene in debito conto che i docenti sono impegnati su più sedi scolastiche, o che il termine delle lezioni alle 18 senza una mensa interna garantita non è gestibile per i ragazzi della secondaria di II grado, o peggio che una turnazione di questo tipo sacrifica il loro tempo per lo studio o per altre legittime attività, fa capire come la scuola sia considerata una scatola vuota da aprire e chiudere a piacere.
Ma qui non è in gioco la ripartenza di facciata di una scatola vuota, bensì la ripartenza del diritto all’istruzione alla formazione. Il covid si impone con una sfida educativa che non può essere vinta se non viene garantita alla scuola statale la corretta autonomia organizzativa, che genera autonomia educativa, e alla scuola paritaria la libertà di essere scelta, autonomia e libertà che consentano ad entrambe le istituzioni - gestite da soggetti differenti, ma dallo Stato controllate come è giusto che sia - di far ripartire il Paese. Lo Stato ha la funzione di garante, non di gestore: ciò che avviene da decenni nella scuola è la dimostrazione concreta, persino lapalissiana, del ruolo regolatore che lo Stato deve ritornare a ricoprire. Lo Stato non deve erogare se non i servizi essenziali, ma poi deve restituire cash ai contribuenti, da spendere nella scuola, nella sanità, nella comunicazione, nei trasporti, nell’imprenditoria, sapientemente innescando quel processo di concorrenza sana che innalza il livello della qualità e che permette di spendere – e di produrre - meglio.
Che non sia un problema finanziario è chiaro dalla dimostrazione ormai certa che con 5.500 euro si permette il diritto all’istruzione a tutti gli 8 milioni di studenti. Gli 8.500 euro pro capite per studente, che gli italiani spendono nella scuola gestita dallo Stato, non servono ai docenti sempre più sottopagati, alle strutture sempre più fatiscenti, ma alla burocrazia che fa dello spreco il proprio nutrimento. Serve invece l’introduzione dei costi standard di sostenibilità per allievo con un portfolio assegnato alle famiglie, che sapranno liberamente scegliere il servizio pubblico migliore, a gestione statale o degli Enti privati e dei Comuni. Allora i cittadini si sentiranno maggiormente coinvolti e protagonisti, e si ristabilirà – a partire dalla scuola - quel sano processo della libertà che muove la sussidiarietà orizzontale, anche e soprattutto dove si producono cultura e formazione della persona. La politica della Scuola unica di regime non emancipa il povero, non crea quella “rendita culturale” per sè e per gli altri che solo l’educazione e la formazione libera possono garantire. E che lo Stato controlli, ma non gestisca. Quindi, in estrema sintesi, la legge di bilancio - e questo ora vale per il recovery fund - deve avere il criterio della redistribuzione dei fondi in modo generativo, progettuale, prevedibile rispetto alle azioni del governo. E difatti la gente avverte maggiormente il senso di precarietà per via dell’incertezza, di una mancanza di prospettiva che faccia intravedere l’accensione del motore Italia, non solo la sua pulitura superficiale. I ricercatori sono stati bravissimi hanno in pochissimo tempo trovato il vaccino che i paesi Europei si stanno procurando; ora occorre il Vaccino economico. Ma è compito della politica, del governo e del parlamento individuarlo e somministralo con la medesima meticolosità degli scienziati. In quale modo?
Un governo di solidarietà nazionale, la più ampia trasversalità politica possono oggi farci uscire dal disastro economico in cui siamo caduti. Un Governo che somministri il vaccino economico, già inventato dai nostri padri costituenti: è sufficiente tornare alle origini di uno Stato che proprio nell’investire questi miliardi di euro di debito, questi anticorpi potenti contro lo statalismo, decide di produrre un Welfare sociale capace di tenere insieme Uguaglianza e Libertà permettendo al privato di fare il proprio onesto mestiere per sé e per gli altri, e di far riparte l’economia in una perfetta logica della sussidiarietà orizzontale che, nel rispetto delle Leggi, genera ricchezza per tutti.
L’essere umano non è fatto per l’assistenzialismo sociale: il sussidio deve essere un passaggio, non una condizione permanente. Il lavoro non serve solo per il salario altrimenti è evidente che può essere sostituito dal reddito di cittadinanza; il lavoro serve alla persona per trovare il proprio posto nel mondo, per realizzarsi in ogni dimensione del proprio essere.
Ecco perché è necessario che il Welfare ritorni ad avere poche regole chiare e prevedibili in punta di diritto e di economia, che garantisca i servizi essenziali, ristabilendo un corretto rapporto tra Stato e Privato, dove quest’ultimo è incoraggiato dal primo a produrre, a creare quella ricchezza che, a sua volta, lo Stato saprà far diventare equamente nuovo motore e nuovo stimolo di vita per il singolo e per la società. Solo in questo senso sarà… Equa l’Italia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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