«L'Italia è la più grande produttrice di regole, ognuna delle quali è una riforma, è la riforma di un'altra regola. Gli stessi esperti pare che abbiano perso il conteggio delle leggi ...», scriveva con il suo inarrivabile sguardo scoptico Indro Montanelli, tracciando i difetti connaturati al Dna del nostro Paese. Un vizietto, quello di far proliferare a dismisura norme e codicilli che non solo non si è mai sopito ma che, unito agli sprechi e al cattivo funzionamento della macchina pubblica, si traduce - secondo i calcoli della Cgia di Mestre - in almeno 225 miliardi di costi all'anno per famiglie e imprese.
Il problema della malaburocrazia, sia chiaro, non è certo una novità. Ma l'allarme lanciato ieri dagli artigiani veneti dovrebbe far sorgere più di un dubbio circa le critiche sollevate da sinistra verso il nuovo Codice degli Appalti in nome di un rinnovato rischio corruzione. Piuttosto andrebbe notato che la certezza degli appalti e quindi la realizzazione delle grandi opere nei tempi previsti sono centrali per il nostro Paese e che quei 225 miliardi bruciati dall'inefficienza della Pa non si discostano molto dai fondi (235 miliardi) che il nostro Paese deve mettere a terra entro il 2026 nell'ambito del Pnrr, una sfida che non può perdere pena la recessione. Senza contare che per i cittadini convivere con uno Stato che non funziona a dovere equivale a pagare ogni giorno una tassa occulta, da sommare a quel già vampiresco 43% che proietta l'Italia sul podio della pressione fiscale. Soprattutto se tutto questo è a fronte di servizi pubblici che si «meritano» il ventitresimo posto sui 27 Paesi europei: fanno peggio solo Romania, Portogallo, Bulgaria e Grecia. Ancora più sconsolante la situazione delle regioni del Sud: delle ultime venti posizioni in Ue, cinque sono occupate da Puglia, Sicilia, Basilicata e Campania; penultima la Calabria.
Tornando al computo dei danni provocati dalla «malaburocrazia», gli artigiani di Mestre puntano il dito contro le regole tortuose e complicate della macchina della Pubblica amministrazione e il ritardo accumulato nei pagamenti, considerano la lentezza che contraddistingue la nostra giustizia civile, calcolano il deficit infrastrutturale, gli sprechi nella Sanità e nel trasporto pubblico locale.
Tutte spine nel fianco di chi produce e lavora che più o meno valgono oltre 11 punti di Pil all'anno, appunto 225 miliardi. Una somma che, va ricordato, è più del doppio dell'evasione (stimata in 100 miliardi) e che sarebbe sufficiente per coprire quasi due volte l'intera spesa sanitaria (131,7 miliardi per il 2023). O, ancora, che corrisponde al valore aggiunto prodotto da tre virtuose regioni del Nordest come Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia.
Insomma, serve un cambio di passo, anche sul fronte degli appalti. Perché l'Italia sta marciando in ritardo non solo nella road map del Pnrr ma anche sull'utilizzo dei fondi europei: entro fine anno sono 29,8 i miliardi da spendere (pari al 46% del totale), di cui dieci cofinanziati. La somma, non impiegata sebbene giacente da almeno nove anni, sarà perduta. La ragione del ritardo accumulato anche in questo caso va ravvisata nella difficoltà dimostrata dagli uffici pubblici a tenere il passo con le richieste provenienti da Bruxelles, complice anche un personale tecnico sovente carente nel numero o poco motivato dal punto di vista salariale.
«Corruptissima re publica plurimae leges (Più corrotto è lo Stato, più numerose sono le leggi)», ammoniva nel primo secolo dopo Cristo lo storico latino Tacito
negli Annales. A distanza di quasi 2mila anni è tempo di imparare la lezione e di sburocratizzare il Paese. Solamente così, insegna il pensiero liberale, in Italia potrà davvero avere inizio un nuovo «rinascimento economico».
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