Se non sarà una risata a seppellirli, sarà un saluto. Cia o. Anzi: ciaone. La parabola della sinistra italiana (ma come vedremo non solo) è tutta nel percorso che in poco più di sette decenni porta da Bella Ciao a un Bel Ciaone. Quello twittato dal deputato Pd di rito renzianissimo Ernesto Carbone nelle ore in cui - nel tardo pomeriggio domenicale - si appalesava chiara l'impossibilità del raggiungimento del quorum per il quesito referendario anti-triv che avrebbe dovuto seppellire il governo Renzi. «Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l'importante è partecipare #ciaone», scriveva Carbone, avanzando pure parecchi dei 140 caratteri previsti dall'uccellino che cinguetta.
Classico caso di ciliegina che rovina la torta. Leggenda chigiana vorrebbe infatti che il testo del tweet fosse stato obliterato dall'entourage di Matteo Renzi, ma che Carbone (nome che peraltro nella sua accezione combustibile ha anche una vaga attinenza con il tema del contendere) avrebbe aggiunto la chiosa hashtaggata di sua iniziativa. Una beffa dadaista che butta in caciara l'impegno referendario e lo sforzo dei 16 milioni che alle urne bene o male ci sono andati. E che lo spiritosone ieri ha attribuito nientedimeno che alla figlia. «Me lo ha insegnato lei, da qualche giorno ci salutiamo così. Perché, non è divertente?», ha detto ieri a un quotidiano.
Fenomenologia del ciaone. Che non è semplicemente l'accrescitivo di un saluto che il mondo ci invidia ma del quale (l'accrescitivo) non si sentiva certo la necessità. Ciaone, in realtà, nel gergo giovanilistico dei social network (nei quali giovanilisti lo siamo un po' tutti, ahinoi), ha una nuance beffarda, da sberleffo. Un saluto non amichevole ma spernacchiante. Che perciò irrita spesso di più di un onesto «vaffa». Ieri sul sito wired.it si azzardava addirittura l'origine della parola, che pare nata sulle rive del Tevere (e te pareva): tra i padri e le madri putative del salutone, Caterina Guzzanti che lo strascica al cinema durante una scena di Confusi e Felici di Massimiliano Bruno (confusi di certo, felici poi...); Emma Marrone, che lo pronuncia giuliva a favor di telecamera; un certo Ignazio Failla, speaker di Radio Dimensione Roma, che ne ha fatto quasi un tormentone; si rammenta, a beneficio della storia, che a Roma esiste addirittura una gelateria che propone un gusto così battezzato. Ciaone e stracciatella. Senza panna, grazie.
Accade poi che nelle stesse ore Dilma Rousseff, presidentessa del Brasile piuttosto nei pasticci, venga impallinata dalla Camera dei Deputati che ne dichiara l'impeachment condannandola quasi di sicuro (deve pronunciarsi anche il Senato, ma pare che neanche là tiri una bella aria per lei) a guardare l'inaugurazione delle Olimpiadi ad agosto dalla tv e non con le forbici in mano allo stadio di Rio. Ebbene, nelle tante futbolistiche manifestazioni di giubilo in tutto il Brasile, compaia come mantra vergato in tanti cartelli «de rua» lo slogan: «Tchau querida». Ovvero ciao bella, come si direbbe a Roma. Perché tra le poche esportazioni del made in Italy linguistico, il ciao è una merce che non smette di avere successo. E come il saluto anche il tono beffardo finisce traslitterato nell'enorme ciaone che decine di milioni di brasiliani twittano in coro alla loro impopolarissima presidentessa, che si è incaricata di dilapidare pensieri, parole, opere e omissioni del suo maestro Lula.
Scriveva Marx, quello che il
comunismo l'ha inventato, che la storia si presenta sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Oggi ai suoi pallidi seguaci la seconda riesce meglio della prima. Per fortuna, forse. E ciaone a tutti.
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