Nei quindici mesi della guerra più difficile della storia del Medioriente, Hamas e i nemici di Israele hanno ricevuto un incoraggiamento molto importante dal continuo scricchiolio nel rapporto fra Netanyahu e Biden, fra Israele e Usa. Blinken, Kamala Harris, tutti mettevano di continuo in discussione, in omaggio al loro elettorato, la strategia e la pratica dell'esercito e della leadership israeliana nel combattere Hamas. Rafah, Tzir Filadelfi, aiuti umanitari... Hamas ha puntato sulla frattura per la gestione dei rapiti, la sua sopravvivenza armata a Gaza, l'inverosimile presa ideologica sul mondo intero.
La rottura con l'America ha destabilizzato il Medioriente e oltre. Adesso, quando ieri Netanyahu ha preso l'aereo per Washington, la prima promessa è stata semplice: mettere ordine in concordia con Trump in un momento di caos estremo, disegnando un cambiamento che il suo Paese e gli Usa vogliono portare in Medioriente. Il lavoro in comune è molto ben avviato: la prima liberazione dei rapiti si svolse nel primo giorno di Trump alla Casa Bianca, la svolta dell'accordo è stata compiuta con la garanzia americana. Adesso, mentre si comincia a discutere della seconda fase dell'accordo si fa più stringente la decisione su un'eventuale nuova guerra di liberazione da Hamas o la prosecuzione del cessate il fuoco fino alla terza fase, quella definitiva. In Israele è richiesta generalizzata, anche se c'è molta preoccupazione. Witkoff, l'inviato di Trump, ha incontrato il ministro Smotrich evidentemente per convincerlo a non minacciare il governo. Da ieri a Doha i negoziatori si vedono e parlano: qatarini, egiziani, israeliani.
Ma le grandi decisioni si prendono alla Casa Bianca, fra due leader molto determinati, decisi a ottenere il loro scopo e anche a andare d'accordo. Steve Witkoff ha raccontato di come Trump abbia pianto di commozione vedendo i rapiti liberati. Trump, l'ha detto più volte, vuole portare pace; ma anche la pace ha un prezzo, quello della sicurezza, e non è semplice, ma si può fare. Netanyahu ha detto partendo la parola «pace» ma innovativa, un cambiamento basilare sulla strada tracciata combattendo vittoriosamente contro i suoi nemici. Israele dunque è decisa a insistere: e se la liberazione degli ostaggi è un obiettivo irrinunciabile, lo è anche che Hamas sparisca dal comando di Gaza. Trump discuterà quindi su come garantire che il futuro della Striscia sia in mani affidabili, forse quelle dell'Arabia Saudita insieme a altri alleati sunniti moderati, l'Egitto e il re Abdullah di Giordania. L'Europa al solito ci fa la figura di un fastidioso fantasma che seguita a ripetere, ogni tanto, «due stati per due popoli», l'ipotesi più irrealistica del momento. Chiedere ad Abu Mazen... Il re Abdullah, intanto, sarà a Washington la settimana prossima, notizia di primo piano, perché la proposta di Trump di un trasferimento volontario, e per chi vuole temporaneo, degli abitanti di Gaza che vorranno spostarsi è tutt'altro, si afferma a Washington, che una boutade. D'altra parte che la Giordania abbia un rapporto molto intimo coi palestinesi, il 70% della popolazione, è storia vecchia e certificata, e l'economia della Giordania dipende molto largamente da Trump.
Netanyahu porterà certamente in primo piano la questione iraniana, come già fece ai tempi del primo governo Trump quando lo convinse a sconfessare l'accordo obamiano. Oggi, Trump, tutto preso dall'enorme tema dell'economia e della Cina, potrebbe volere smorzare il presente in sanzioni piuttosto che immaginando un attacco alle strutture nucleari, ormai avanzatissime verso la bomba. Ma le sanzioni non intimidiscono un regime fanatico che vuole di nuovo armare gli Hezbollah e intanto rimpingua di armi Jenin e Ramallah.
È il regime l'obiettivo, e si vedrà che se ne dice a Washington. Intanto Abu Marzuk, capo dell'ufficio politico dei terroristi di Hamas, è stato invitato a una riunione al ministero degli esteri russo. E se ne vanta, perfino, l'agenzia Novosti. I vecchi soldati non muoiono mai.
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