Fuori dal Parlamento, dopo 35 anni, da quel 1987 in cui Umberto Bossi calò come un barbaro a Roma, unico eletto della Lega Lombarda al Senato, da cui il soprannome «Senatùr» rimastogli attaccato per tutta la vita. La sua esclusione è l'emblema della crisi della Lega al nord, persino nelle sue riserve storiche come Varese, culla del leghismo. Bossi, assicurano i leghisti, non voleva candidarsi. Si muove in carrozzina, le trasferte settimanali a Roma sono pesanti, e lo stipendio da deputato nemmeno gli è indispensabile visto che, con otto legislature alle spalle, può contare su una pensione considerevole.
La volontà di entrare in lista non è stata sua, e nemmeno di Salvini, ma di Giancarlo Giorgetti, da un lato per l'affetto personale dall'altro, fanno notare dalla Lega, per avere ancora in prima linea alla Camera una voce critica nei confronti di Salvini. Per quello Bossi è stato messo in una posizione buona, una di quelle praticamente blindate: capolista del proporzionale nel collegio Lombardia 2 alla Camera. Il flop della Lega che si è fermata al 15% (poco da quelle parti) sommato ai meccanismi diabolici del Rosatellum lo hanno sgambettato. I suo collegio plurinominale infatti comprende Varese e Como, con candidati differenti nelle due città ma con stessa ripartizione dei seggi, per cui passano solo quelli dove la coalizione ha ottenuto un risultato migliore. Siccome a Como il centrodestra è andato leggermente meglio che a Varese, Bossi è rimasto fuori. Anche se qualcuno spera ancora, grazie al cosiddetto «effetto flipper» del Rosatellum, in un clamoroso recupero all'ultimo con un seggio ulteriore da assegnare al centrodestra in Lombardia.
Ma al di là delle diavolerie della legge elettorale, quello che conta è il messaggio politico a Salvini. È lo stesso fondatore della Lega a esplicitarlo: «Il popolo del Nord esprime un messaggio chiaro ed inequivocabile che non può non essere ascoltato» dice tramite il suo staff. Se nel cuore della «Padania» la Lega viene doppiata da Fdi significa che c'è un problema. Quanto al suo caso personale Bossi conferma la versione che gira tra i leghisti, «sono contento poiché avevo deciso di non candidarmi. Mi hanno pregato e solo per il rispetto verso la militanza ho accettato».
Il caso Bossi come simbolo della disfatta è utilizzato dalla fronda anti-Salvini per chiedere un cambio di passo, e in certi casi di leader. «Non è stato eletto Umberto Bossi, qualcuno mi spieghi di chi è la responsabilità della sua esclusione» commenta l'ex deputato Paolo Grimoldi, che annuncia una raccolta firme per chiedere «subito il congresso della gloriosa Lega Lombarda». L'ex ministro Roberto Castelli si dice «triste e arrabbiato perchè Bossi non è stato rieletto, una vera ingiustizia secondo me, è stato travolto dalla debacle. La Lega attuale non ha nulla a che vedere con quella nostra, è un partito centralista con temi di destra». «La brutta figura non la fa Umberto ma il partito» dice Giuseppe Leoni cofondatore della Lega.
Salvini propone la candidatura di Bossi a senatore a vita, «sarebbe il giusto riconoscimento dopo trentacinque anni al servizio della Lega e del Paese». Idea subito sostenuta da altri nel centrodestra. Ma dalla fattibilità complessa. Non solo perchè non spetta al Parlamento bensì al capo dello Stato.
Ma soprattutto perchè la Costituzione prevede che «il numero complessivo dei senatori in carica» su nomina del presidente della Repubblica «non può in alcun caso essere superiore a cinque». E a Palazzo Madama al momento ce ne sono appunto cinque.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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