Barcellona Al Palau del Governo catalano vige il caos più assoluto. E anche nella testa del suo presidente, Carles Puigdemont, alberga un'ostinata incapacità decisionale che, ieri l'ha spinto, davanti alla Spagna intera, all'ennesimo repentino dietrofront nello scegliere la chiave più adatta per uscire dalla difficile situazione politica e personale. Prima, elezioni sì il 20 dicembre, ma con dichiarazione ufficiale sospesa per un'ora che poi diventano quasi quattro, per rimescolare le carte, riunire i suoi pretoriani, e dire, in fine, un secco «no» alle urne. Colpa di Rajoy che non offre nessuna garanzia allo stop immediato delle misure costituzionali punitive.
Il tira e molla è iniziato giovedì mattina, all'indomani di una riunione notturna fiume con il suo gabinetto politico d'irriducibili che, come lui, oggi rischia di essere sollevato da ogni incarico. Puigdemont, prima di rinchiudersi nel suo ufficio per una siesta di un paio d'ore (lui vive a 80 km fuori Barcellona), ha comunicato al portavoce che alle 13.30 avrebbe dichiarato l'esito della riunione. Da subito sono circolate voci, con molta insistenza, che il President, per non sottomettere la regione ai terribili effetti dell'art. 155, avrebbe mandato tutti alle urne. Una soluzione, però, invisa ai suoi di Cup ed Erc (la sinistra separatista e quella Repubblicana), ma supportata sia dal PDeCat, la parte moderata del suo esecutivo a tre e dai Socialisti di Pedro Sánchez.
Lui, il «bel Pedro», ieri, prima del contrordine da Barcellona era pronto a usare la sua influenza di alleato su Rajoy, così da convincerlo a fermare la macchina schiacciasassi del 155 in caso di resa di Puigdemont. Una soluzione che, fino a giovedì mattina non convinceva il premier, disposto sì ad alleggerire le misure suggerite dalla Costituzione in caso di urne, ma a non sospenderle del tutto. Atteggiamento che ha indotto Puigdemont a rimangiarsi la parola elezioni, mandando definitivamente in fumo l'ipotesi di una momentanea distensione con Madrid, in attesa della decisione del Senato. Così alle 14.30 Puigdemont ha rinviato la sua comparizione in tv alle 17, poi ha tolto ogni dubbio. «Non esisteva nessuna garanzia legale (da parte del Governo di Madrid, ndr) a convocare il Senato. Non accetto le misure ingiuste dell'articolo 155», ha dichiarato il President, mentre fuori dal palau quattrocentesco la folla diventava sempre più nutrita e rumorosa sotto gli occhi della Guardia Civil e gridava: «No a elección, si a declaracción» (No alle elezioni, sì alla Dui, dichiarazione d'unilaterale d'indipendenza). «Lo sanno che ero disposto a convocare le elezioni, sempre che ci fossero state garanzie», ha aggiunto, definendo le misure di Madrid «abusive» e «illegali» perché l'unico interesse di Rajoy «è sempre stato sradicare la nostra autonomia e cancellare il movimento secessionista catalano». Un discorso dai toni forti, attenuato soltanto dall'appello a mantenere «pacifico e civile ogni coinvolgimento pubblico della gente». Poi, Puigdemont ha concluso, esprimendo la volontà di lasciare al parlamento catalano «ogni scelta sulle decisioni da prendere e sulla dichiarazione d'indipendenza in base alla situazione che si produrrà con l'entrata in vigore dell'articolo 155».
Da Madrid, la vice premier Soraya Senz de Santamaria, parlando al Senato, ha detto che: «Abbiamo l'obbligo legale, democratico e politico di riscattare i catalani». Rajoy è rimasto in silenzio, mentre l'ultimo sondaggio dà al 44 per cento i catalani pronti a lasciare Madrid.
Intanto a Bilbao, avanza l'ipotesi di interporre tra il toro castigliano e l'asino catalano, Íñigo Urkullu Rentería, il Lehendakari, il governatore dei Paesi
Baschi (Euskadi), terra drammaticamente testimone ed esperta di oltre cinquant'anni di duro nazionalismo e scontro con Madrid, sfociato prima in terrorismo (oltre 800 morti) e poi con la rappacificazione sociale e politica.
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