Da una parte c'è il carnefice, dall'alta le vittime. Bando all'equidistanza ipocrita: qualcuno la guerra la fa e qualcuno la subisce. «L'esercito russo è il carnefice, la popolazione ucraina la vittima». Più chiaro di così è difficile.
Mentre imperversa un pacifismo ipocrita e unilaterale, dunque, anche nella sinistra-sinistra c'è chi conserva l'onestà intellettuale di chiamare le cose col loro nome. Cecilia Strada per esempio, figlia di Gino, medico fondatore di «Emergency» e icona del pacifismo italiano, scomparso ad agosto.
Milanese, 43 anni, a sua volta ex presidente dell'Ong famosa per operare nei teatri di guerra, oggi Cecilia Strada è impegnata sul fronte dei soccorsi nel Mediterraneo ed è molto seguita da un'opinione pubblica di sinistra che era affezionata al padre, non tenero certo con l'Occidente e gli americani.
«La situazione è chiara - scrive - C'è un aggressore, la Russia, che ha invaso l'Ucraina e ne massacra i civili. L'esercito russo è il carnefice, la popolazione ucraina la vittima». E in due giorni, questo suo discorso sulla guerra russa in Ucraina ha ottenuto una pioggia di consensi, la bellezza di 20mila «like», una cifra da far impallidire i «post» dei vari leader di partito, soprattutto nel campo giallorosso.
Una bella lezione di chiarezza, per gli specialisti dei distinguo e dei «ma anche» che imperversano in tv, a volte (finti) pacifisti che si appellano alla «complessità», e proclamano una «equidistanza» che si trasforma in vicinanza all'aggressore. Spesso, questi non lo nominano neanche Putin - in compenso non fanno che parlare degli americani o degli ucraini - e così facendo gli regalano indirettamente alibi e attenuanti: le presunte «provocazioni» occidentali prima di tutto, e poi il battaglione Azov e le formazioni neo-naziste, oppure le qualità del presidente ucraino Zelensky, i suoi orientamenti e i suoi trascorsi.
«Credo di avere messo a fuoco una cosa che mi disturba parecchio della narrazione della guerra in Ucraina» sbotta Cecilia Strada. E vede due possibili errori. Da un lato l'idealizzazione della vittima, dall'altro appunto la sua colpevolizzazione. Li sintetizza così: da un lato «Zelensky come Gandhi» e dall'altro «eh ma il battaglione Azov». «Non c'è alcun bisogno di dipingere Zelensky come Martin Luther King - avverte - o di negare l'esistenza di neonazisti nel Paese (ricordiamoci che ce li abbiamo anche noi, eh), o di negare le contraddizioni o i problemi di un Paese per stare, come dobbiamo giustamente stare, dalla parte delle vittime».
«I leader ucraini - d'altra parte - potrebbero essere anche mediocri, potrebbero esserci anche trecentocinquantamila battaglioni Azov, potrebbero essere stati commessi crimini negli ultimi anni in Donbass, potrebbe essere tutto: e non cambierebbe di una virgola il fatto che la Russia è l'aggressore, l'Ucraina l'aggredito, uno il carnefice, l'altro la vittima, e bisogna difendere le vittime». «Si sta dalla parte delle vittime - conclude - perché tra carnefice e vittima si protegge la vittima. Indipendentemente da tutto il resto».
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