Un colpo di scena a metà. Per il partito democratico una novità che sa di antico

All'Asinello serve una svolta radicale. O il sacrificio di Biden sarà stato vano

Un colpo di scena a metà. Per il partito democratico una novità che sa di antico
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C'è il rischio che la decisione di Joe Biden di rinunciare alla corsa per la Casa Bianca e il conseguente endorsement per la sua vicepresidente Kamela Harris, si rivelino per i democratici la tipica scelta a metà. Di quelle cioè che producono la metà degli effetti che servirebbero per capovolgere una narrazione della campagna elettorale che se non ci saranno colpi di scena sembra avere come epilogo ineluttabile il ritorno di Donald Trump.

Ora è comprensibile politicamente e ancor più umanamente un Biden che, costretto a cedere alle insistenze di chi nel suo partito lo considerava ormai senza chance di vittoria, ha voluto almeno indicare il nome del suo sostituto scegliendo la persona che gli è stata più vicino in questi anni di mandato per marcare una continuità. Ma si tratta di un comportamento che potrebbe rendere inutile sia il suo sacrificio, sia il travaglio del suo partito perché rischia di non cambiare il corso delle cose imponendo uno choc nella campagna elettorale. È il limite, appunto, di chi vuole salvaguardare una «continuità» che potrebbe trasformarsi in zavorra.

Sarebbe meglio, molto meglio per il Partito democratico accettare un suggerimento vecchio di secoli come quello di Papa Leone X che consigliava: «Fatto 30, tanto vale fare 31». Il che significherebbe riaprire del tutto i giochi mettendo in piedi delle nuove primarie nella convention di metà agosto, gettando nella mischia un candidato inedito, inaspettato come l'ex first lady Michelle Obama. Oppure il governatore di uno degli Stati in bilico, quelli considerati strategici per puntare alla Casa Bianca, tipo il Michigan o la Pennsylvania.

Tutti nomi che provocherebbero quel cambio di spartito che la Harris non garantisce come testimoniano i sondaggi o le provocazioni di una vecchia volpe come Trump («è addirittura più facile vincere con lei che con Biden»). Soprattutto, è il profilo poco chiaro dell'attuale vice presidente a non convincere. Certo la Harris ha due connotati che pagano in quella metà d'America più vicina all'elettorato democratico (è donna e di colore) specie quello più radicale, ma contemporaneamente ha fatto una battaglia contro l'immigrazione clandestina a parole («dovete restare nei vostri Paesi, vi aiuteremo lì»), senza nessun seguito sul piano dei provvedimenti legislativi. Su questo argomento Trump l'ha già messa nel mirino. Una linea che l'ha resa, quindi, meno credibile a destra come a sinistra.

Insomma, la Harris è tutto e niente e la sua esperienza alla Casa Bianca sulla scia di Biden è vacua e non costellata di successi.

Tutto questo non la rende una novità, un nome su cui scommettere. È giovane sul piano anagrafico (sicuramente un argomento da usare contro l'ottuagenario Trump) ma è già stata sperimentata in questi quattro anni. In più sulla sua candidatura pesa l'ombra della campagna di Biden contro il pericolo Trump, «il bersaglio» Trump, che l'attentato ha reso del tutto inservibile.

Avrebbe sicuramente più senso per il partito dell'Asinello puntare su un nome nuovo, dal passato per questo inattaccabile, e con un'età che risaltasse nel confronto con l'immagine di un Trump avanti negli anni: per la legge del contrappasso potrebbe utilizzare gli stessi argomenti (tenuta fisica e psicologica) con cui the Donald ha logorato Sleepy Joe.

E vista l'esperienza degli ultimi quarant'anni dovrebbe essere un candidato capace di parlare con quel pezzo di elettorato (ed establishment) repubblicano moderato molto diverso dal popolo Maga dell'America profonda, che a volte sembra in imbarazzo o, comunque, soffre l'estremismo di Trump. In fondo è lo schema alla base di tutte le elezioni presidenziali vinte dai democratici. Da Clinton, a Obama, al Biden di quattro anni fa.

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