L'orientamento assunto dal vicepremier Antonio Tajani (accolto anche da Giorgia Meloni), che ha spiegato come la premier abbia «parlato alla Cina dei piani dell'Italia per uscire dalla Via della Seta» (l'ambizioso progetto del governo cinese volto ad allargare le proprie relazioni in direzione dell'Europa), suscita più che legittimamente reazioni contrastanti.
Da un lato è probabile che questo cambio di rotta comporti un costo per il nostro sistema economico e le nostre imprese. Anche se rimane una società fragile e con redditi pro-capite modesti, grazie alle dimensioni (si tratta di oltre un miliardo di persone) la Cina comunista è in grado di investire enormi somme in questa o quella direzione.
Comprensibilmente, dal suo punto di vista, Tajani afferma che quanti sono rimasti fuori da quell'accordo hanno spesso saputo intrattenere migliori rapporti commerciali con Pechino. È possibile. È ancor più importante rilevare, però, che se in un primo momento sembrava che il disegno fosse essenzialmente economico (e volto ad aprire i mercati), in seguito è apparso chiaro come la Cina guardasse a quegli investimenti in una logica squisitamente politica.
Il partito comunista ha mostrato egli europei il luccicore dei propri investimenti con l'obiettivo di allargare la sua sfera d'azione: come già ha fatto in Africa.
In altre parole, se già l'accordo sottoscritto dal governo guidato da Giuseppe Conte non era volto a celebrare le virtù del commercio, pure questo ritrarsi dagli impegni assunti non intende alzare barriere. Si tratta, invece, di essere consapevoli che se anche evoca le antiche carovane degli ardimentosi mercanti dei secoli passati, il progetto della «via della seta» è assai più un affare di Stato e imprese pubbliche, che non di aziende private e mercato.
Oggi gli spazi della libera concorrenza sono assai ristretti: in Europa e pure in Nord America. In tutta una serie di circostanze abbiamo a che fare con imprese formalmente private, ma che nei fatti vivono all'ombra del potere e grazie a favori di matrice governativa.
Se questo è vero in Occidente, ovviamente ancor di più è vero nel quadro di un comunismo come quello cinese, che non soltanto ha compreso che un gatto privato può catturare meglio il topo (per ricordare la formula di Deng Xiaoping), ma soprattutto usa i propri colossi industriali entro un disegno di egemonia geopolitica. Un qualcosa che noi europei dobbiamo temere e contrastare.
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