La storia di Mahmood Zeeshan, il pachistano privato dei suoi diritti, ammanettato e respinto a bastonate in Slovenia dalla polizia italiana che lo ha catturato a Trieste in stile Pinochet è una bufala. Il 27 aprile lo ha stabilito, nero su bianco, un’ordinanza del tribunale di Roma firmata dalla presidente del collegio Luciana Sangiovanni, che ha accolto il ricorso del ministero dell’Interno. Peccato che in gennaio un altro giudice della capitale, Silvia Albano, di Magistratura democratica, avesse preso per oro colato la storiella del pachistano anche se in realtà il migrante non sarebbe mai arrivato in Italia secondo le prove presentate dal Viminale. Per di più la fake news è servita come pretesto alla giudice per bloccare le “illegittime” riammissioni dei clandestini della rotta balcanica in Slovenia. “Così quest’estate arriveranno ancor più migranti sapendo che non possono venire mandati indietro” spiega una fonte del Giornale in prima linea nella lotta all’immigrazione clandestina. Nel 2020 sono stati rintracciati 6477 clandestini in Friuli-Venezia Giulia e solo 1301 erano stati respinti in Slovenia, ma adesso le riammissioni sono bloccate.
La “vittima” Zeeshan aveva presentato una denuncia accusando di violazione dei suoi diritti, maltrattamenti e respingimento in Slovenia la polizia italiana. Un ricorso reso possibile dagli avvocati Anna Brambilla e Caterina Bove, legate all’Asgi un’associazione legale pro migranti sponsorizzata da George Soros. La nuova ordinanza stabilisce che “non è stata fornita la prova” che il pachistano “abbia personalmente subito un respingimento informale verso la Slovenia”. E viene pure condannato a pagare 3.038 euro di spese legali. Zeeshan sostiene di essere arrivato a Trieste a metà luglio sello scorso anno con altri migranti e di avere ricevuto assistenza dai talebani dell’accoglienza di Linea d’ombra. Il loro vicepresidente è indagato dalla Procura di Trieste per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Agenti in borghese, quando le forze dell’ordine che si occupano dei migranti sono sempre in divisa, avrebbero prelevato il pachistano e altri quattro, davanti alla stazione dei treni, caricandoli su un furgone per portarli in una non meglio identificata stazione di polizia dove sarebbero stati foto segnalati. Ovviamente nessun poliziotto prestava ascolto alle richieste di protezione e asilo avanzate dai migranti. Poi il gruppetto sarebbe stato ammanettato e trasferito in una zona collinare dove “con dei bastoni intimati a correre dritto davanti a loro, dando il tempo della conta fino al 5” venivano respinti in Slovenia. A loro volta sloveni e croati avrebbero sparato per intimorire i migranti e alla fine li hanno bastonati con manganelli avvolti nel filo spinato. In 48 ore la presunta “vittima” era stata brutalmente ricacciata in Bosnia, punto di partenza dell’ultimo tratto della rotta balcanica.
Zeeshan, classe 1993, grazie a questo racconto preso per buono dalla prima sentenza, senza riscontri e approfondimenti, è arrivato in Italia da Sarajevo con regolare visto il 9 aprile. A Malpensa lo hanno identificato ed è saltata fuori la sorpresa. “Era stato foto segnalato ed erano state acquisite le sue impronte digitali, che non risultavano registrate nel sistema” si legge nelle 7 pagine dell’ordinanza. In pratica il pachistano non sarebbe mai stato in Italia e si ribadisce il “dato obiettivo e difficilmente controvertibile della totale assenza di traccia alcuna del suo passaggio alle autorità italiane e quelle slovene.... tra le foto segnalazioni e gli archivi documentali non emerge il nominativo (…): egli è sconosciuto sia alle autorità italiane che a quelle slovene”. Zeeshan ha ribadito che gli erano state prese le impronte a Trieste con il vecchio sistema dell’inchiostro. Peccato che dal 2016 questo metodo obsoleto è sostituito “da foto segnalamento con uno scanner, che non necessita di rilevamento di impronta su carta”. Non solo: la grande stazione di polizia dove sarebbe stato portato dopo un viaggio di 15-20 minuti non poteva essere né la Questura, che si trova in centro, né il tendone militare dove vengono ospitati i migranti appena intercettati sul Carso. E il luogo di consegna agli sloveni degli “Uffici di Krvavi Potok, siti a 200 metri dalla linea di confine” non si trova in una zona collinare descritta dalla presunta vittima, ma “in un avvallamento”.
Il Viminale ha anche scoperto, grazie al sistema di archiviazione Eurodac, che Zeeshan “all’età di 23 anni” era arrivato in Grecia dove aveva presentato “una prima domanda di protezione internazionale nel luglio 2016”. I suoi difensori sostengono che è un “[...] ingegnere ventisettenne [...] scappato dalla sua città natale un anno e mezzo prima (rispetto al presunto arrivo in Italia ovvero nel 2018 nda) [dopo aver] attraversato nove paesi….fuggito [...] a seguito delle persecuzioni subite a causa del proprio orientamento sessuale e dell’essersi professato ateo”. Non combaciano le date della richiesta di asilo in Grecia, due anni prima la presunta partenza dal Pakistan.
In gennaio i legali e giudice hanno avallato la storiella delle brutalità della polizia italiana basandosi solo sul copia e incolla di un “rapporto della Ong Border Violence Monitoring Network”, altri talebani dell’accoglienza e dell’articolo praticamente uguale di un giornalista danese che ha incontrato il pachistano a Sarajevo.
Per di più se la sua storiella fosse stata vera “il Collegio (del tribunale di Roma nda) osserva che in tale complesso e lacunoso quadro probatorio e a fronte delle gravissime condotte delle autorità italiane” come sostenuto dal pachistano “se accertate, avrebbero obbligato l’autorità giurisdizionale a trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica”. Nulla del genere è avvenuto, ma i “campioni” dell’accoglienza hanno utilizzato il caso per affossare le riammissioni in Slovenia. Il deputato di Leu, Erasmo Palazzotto, ha presentato un’interrogazione. Gianfranco Schiavone vice presidente dell’Asgi, che ha sponsorizzato la denuncia, sosteneva in comizi e dirette web “che il caso di questo primo giovane ragazzo pachistano non sarà isolato”. Gli facevano eco una pattuglia di europarlamentari che vogliono aprire la rotta balcanica come Alessandra Moretti e Massimiliano Smeriglio giunto a Trieste dopo la prima sentenza per dare man forte. Gli agenti del capoluogo giuliano sono stati messi in croce come picchiatori che non rispettano i diritti dei migranti. “La sentenza ha ridato piena dignità agli operatori ingiustamente accusati da infamanti falsità, in pieno contrasto con l’opera quotidiana di primo soccorso che la Polizia di Frontiera attua proprio nei confronti di chi raggiunge il nostro Paese facendo ricorso ai trafficanti di uomini, quelli sì senza scrupoli” ha dichiarato Lorenzo Tamaro del sindacato Sap.
E nessuno si è posto il problema che la prima giudice, Albano, il 14 ottobre scorso era fra i relatori di un convegno dell’Asgi con i sindacati Cgil, Cisl, Uil e Magistratura democratica intitolato “Europa: migranti e richiedenti asilo”. Tre mesi dopo accoglieva il ricorso farlocco del pachistano difeso dai legali delll’Asgi.
Il risultato finale lascia l’amaro in bocca: la finta vittima oramai è in Italia e sarà dura rimandarla a casa. Grazie alla sua bufala sono state dichiarate “illegittime” le riammissioni in Slovenia. In marzo e aprile sono raddoppiati gli arrivi di migranti a Trieste rispetto agli stessi mesi dello scorso anno, che aveva già segnato un boom.
Negli ultimi due giorni sono stati intercettati 110 pachistani, afghani e nepalesi nel capoluogo giuliano giunti dalla rotta balcanica. Nessuno verrà rispedito in Slovenia grazie alla storiella infondata del pachistano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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