Una corporazione "fuori mercato"

La pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita

Una corporazione "fuori mercato"

L'intervista rilasciata dal presidente dell'associazione nazionale dei magistrati, Piercamillo Davigo, ha suscitato più che giustificate polemiche, né poteva essere diversamente. Chi voglia riflettere, andando al di là delle polemiche di superficie, sul presente degrado della giustizia deve comunque muovere da una constatazione elementare: che il nostro sistema giudiziario è in una crisi profonda. Si ha spesso la sensazione che in ambito penale siamo tutti po' tutti criminali fino a prova contraria, mentre quando chiediamo giustizia nel settore civile siamo obbligati a fare i conti con ritardi e inefficienze abnormi, che pesano come un macigno sull'intera economia. Alla radice di tutto c'è il fatto che, in definitiva, abbiamo una magistratura «fuori mercato».

Questo è sostanzialmente vero in tutto l'Occidente, ma lo è in modo particolare in Italia, dove ogni forma alternativa di risoluzione delle controversie (dall'arbitrato alla mediazione) sembra ostacolata di proposito dall'ottusità dei legislatori e dalla strenua difesa delle proprie posizioni che la magistratura sa esercitare con successo. Per giunta, la pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita. Se sapessero rinunciare a un po' della loro boria, quanti fanno parte della corporazione di Stato incaricata di emettere sentenze e moralizzare gli italiani trarrebbero beneficio dalla lettura di quelle pagine della Ricchezza delle nazioni in cui il padre dell'economia moderna, Adam Smith, nel 1776 spiegava al lettore per quale ragione i giudici inglesi del tempo fossero ovunque tanto apprezzati.

Nel capitolo primo del quinto libro egli sottolineava come, al tempo, spesso fosse facile evitare il giudice «naturale» (scegliendo insomma da chi farsi giudicare) e come ogni tribunale vivesse grazie alle spese processuali. C'era, insomma, un libero mercato che premiava e puniva, spingendo ogni magistrato a operare nel migliore dei modi. Fedeli a un'antica tradizione, nella società inglese «tutti i giudici si sforzavano di dare, nel proprio tribunale, il rimedio più veloce e più efficace che il diritto ammettesse per ogni genere d'ingiustizia». Solo i tribunali che funzionavano, d'altra parte, chiamavano a sé una clientela disposta a finanziarli.

Tornare a Smith aiuta a capire come questa magistratura che a parole attacca con tanta veemenza i politici, nei fatti sia legata a doppio filo alle logiche più ottuse della sovranità e del monopolio statale della forza. Quando si parla di liberalizzazioni, in Italia, solitamente di tirano in causa i tassisti e i notai; e qualche volta ci si spinge pure a parlare di farmacie, aziende municipalizzate o banche.

Ma è ora giunto il momento di far scendere dal piedistallo una delle corporazioni più potenti e arroganti, facendo sì che ogni magistrato debba costruirsi un'immagine: com'è costretto a fare chiunque sia in concorrenza con altri.

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