Crescita economica in cambio di libertà. Perché vacilla il patto tra Xi e i cinesi

L'inefficacia delle misure anti-pandemia è ormai evidente e rischia di rompere il rapporto fra il presidente e i cittadini

Crescita economica in cambio di libertà. Perché vacilla il patto tra Xi e i cinesi

Crescita economica ininterrotta e speranza di benessere sempre più diffuso in cambio di una totale rinuncia alla libertà, alla democrazia e ai diritti civili. È il patto su cui si è basato, fin qui, il rapporto tra l'imperatore comunista Xi Jinping e un miliardo e 400 milioni di cinesi. Ora quel patto traballa. A metterlo in forse, in una sorta di drammatica nemesi, ci sta pensando una pandemia che pur essendo nata in Cina aveva fin qui messo in ginocchio soltanto l'Occidente. Ora invece l'effetto boomerang delle drastiche misure adottate per combattere il Covid sta mettendo all'angolo i vertici del Partito comunista cinese, privandoli dell'ultima legittimazione di cui godevano.

Certo, il muro della censura e un controllo sociale di stampo orwelliano, accompagnati da una spietata repressione, avranno facile gioco nel mettere la sordina a una protesta estesasi ai più importanti centri industriali del paese. Proprio per questo sarebbe eccessivo attendersi una nuova Tienanmen o un'imminente rivolta generalizzata. La caduta del patto implicito che lega cittadini e potere comunista minaccia però di manifestarsi nel lungo periodo, dando vita a un dissenso senza precedenti. Il perché è presto detto.

L'angolo cieco in cui si è infilato Xi Jinping è chiuso su un lato dalle insostenibili misure d'isolamento adottate per contenere i contagi e dall'altro dalla recessione economica generata da quelle stesse misure. Ma ogni tentativo di uscire da quella morsa rischia di compromettere ulteriormente i fondamentali del patto su cui si basa il consenso politico e sociale. L'inefficacia delle misure di prevenzione è ormai evidente. Il ritorno del Covid, manifestatosi a primavera in 50 città, si è esteso, nonostante le insopportabili misure di reclusione sociale, a un'ottantina di 80 grandi centri da cui dipende il 50% della produzione manifatturiera e il 90% delle esportazioni. Pechino appare, però, a corto di soluzioni efficaci. Allentando le chiusure, rischia non solo di moltiplicare i contagi, ma anche di evidenziare le carenze di un sistema sanitario inadeguato ad affrontare una diffusione del virus simile a quella registrata in Occidente. A tutto ciò s'aggiunge la comprovata inefficacia dei vaccini cinesi. Imponendone la somministrazione, il regime finirebbe con il certificarne l'inutilità rendendo evidente l'inadeguatezza della propria industria farmaceutica.

Sul fronte economico le vie d'uscita sono ancor più strette. Nel 2022, il tasso di crescita ben difficilmente raggiungerà quel 5,5%, già assai modesto per gli standard cinesi, promesso a marzo dalle autorità governative. Una previsione confermata dall'Ufficio Nazionale di Statistiche di Pechino, che a fine ottobre registrava una caduta del 3% dei profitti nei vari settori industriali del paese. In questa situazione, l'unica via per stimolare l'economia sarebbe sottrarla al pesante controllo delle aziende di stato, garantendo maggior libertà d'investimento agli imprenditori privati. Esattamente l'opposto di quanto ha fatto Xi Jinping. Lo dimostrano le purghe abbattutesi sul fondatore di Ali Baba, Jack Ma, e su tutti gli aspiranti capitalisti convinti di potersi sottrarre al controllo del Partito.

Ma ora quel controllo, soffoca non solo le speranze di benessere personale, ma anche le residuali libertà personali, condannando agli arresti domiciliari intere regioni. E questo appare inaccettabile anche per un popolo cinese disposto fin qui a sopportare con ineluttabile rassegnazione il potere assoluto di Xi Jinping e del partito.

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