Tra gli altri c'è Roman Abramovich, ex proprietario del Chelsea; Alisher Usmanov, un tempo presidente della federazione schermistica internazionale; Evgenij Kaspersky, diplomato alla scuola superiore del Kgb e fondatore della società informatica che porta il suo nome, uno dei colossi internazionali nel campo degli anti-virus; e ancora, Michail Friedman, cittadino israeliano e da anni residente a Londra, comproprietario della potente Alfa-Bank. In tutto sono 80 tra i 200 uomini più ricchi di Russia in base alla classifica di Forbes per il 2021. Spariti dai radar dei media internazionali, spesso residenti in qualche paradiso come gli Emirati Arabi, in grado di tenerli al riparo da sguardi indiscreti, gli 80 oligarchi sono parte integrante dello sforzo bellico russo. Le loro aziende hanno chiuso lucrosi contratti con il ministero della Difesa e con la Guardia nazionale: solo gli appalti pubblici, quelli non classificati, hanno un valore minimo stimato pari a 3 miliardi di dollari. Con le armi prodotte dai loro stabilimenti i russi invasori hanno compiuto la strage di Bucha o quella del teatro di Mariupol.
A compilare una sorta di anagrafe della partecipazione dei maggiori oligarchi all'invasione dell'Ucraina è stato un sito investigativo, Proekt-media (che ovviamente opera dall'estero), guidato da uno dei più famosi giornalisti russi, Roman Badanin. Dallo scoppio della guerra, la posizione dei supermiliardari si è fatta difficile: hanno dovuto mettere in discussione l'abituale stile di vita, si sono spesso visti sequestrare le proprietà all'estero. Quasi tutti tra gli 80 miliardari fiancheggiatori del regime hanno ricevuto qualche forma di sanzione: solo 14, però a livello davvero globale, in 34 sono stati messi al bando esclusivamente dall'Ucraina.
C'è chi, come Abramovich, ha tentato di inserirsi in subito abortiti colloqui di pace; e chi come Farad Akhmetov e Roman Trotsenko è stato vittima di misteriose intercettazioni (con le conversazioni subito finite in Rete) mentre insultava il comandante in capo Putin, accusato di aver condotto il Paese sull'orlo del baratro. Sfoghi privati, privatissimi, visto che solo due mesi prima dello scandalo uno dei intercettati, nello specifico Trotsenko, aveva ricevuto personalmente dal presidente un'onorificenza importante, l'«Ordine dell'Amicizia tra i Popoli». Dopo la vicenda i due hanno continuato come se niente fosse: Trotsenko è socio di un'azienda che procura le materie prime per gli esplosivi. E Akhmedov fornisce metalli preziosi e carburante all'esercito. È suo il combustibile dei missili che martellano regolarmente l'Ucraina.
Di fronte alle sanzioni dell'Occidente, gli oligarchi legati al complesso militare-industriale russo hanno tutti dimostrato di apprezzare il garantismo delle democrazie liberali, mobilitando centinaia di avvocati e facendo piovere sui tribunali ricorsi a più non posso. Nessuno però ha messo in discussione i legami d'affari con le forze armate russe.
Così Abramovich ha continuato a fornire materiali pregiati ai produttori di armi; Usmanov, attraverso la sua Megafon, garantisce le telecomunicazioni ai reparti delle forze armate sul campo, mentre con il quotidiano Kommersant fa da pilastro alle politiche informative del Cremlino; Vladimir Potanin fornisce componenti per missili e aerei; Oleg Deripaska, importante anello di collegamento tra l'élite di potere dei tempi di Eltsin e dell'era di Putin, produce un po' di tutto, dai corazzati ai missili.
Lo stesso Deripaska, insieme ad altri oligarchi come Leonid Michelson, è attivamente coinvolto nel reclutamento di volontari per la guerra: secondo un altro sito investigativo, Vashnie Istorii, li assume nelle sue aziende per «girarli» al ministero della Difesa.
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