A volte ritornano, ma in questo caso avremmo proprio preferito di no. È carina, per carità, la C finale seguita dai due punti, a riprodurre «emoticamente» due occhi sormontati da un accenno di testa, anche perché nuove «grammatiche» visive stanno via via prendendo piede grazie alla moltiplicazione, anno dopo anno, degli emoji (stanno forse aprendo, anzi, un nuovo cammino verso la riconfigurazione concretizzante e realizzante dei nostri alfabeti). Gli effetti simpatici (ed empatici) di quello di cui ci accingiamo a parlare, però, si fermano qui. Di cosa si tratta? Dell'hashtag #NoPanic, scelto anche quest'anno dal Miur per la campagna sugli esami di maturità. È la solita punta dell'iceberg, intendiamoci, di una scuola (e di un'università) che si è voluta pervicacemente distruggere, anno dopo anno, con i saperi «quantitativi» dei test Invalsi, le sperimentazioni frettolose o gli inganni dell'alternanza scuola-lavoro, ma è pur sempre un sintomo di una paura ansiogena di cui, evidentemente, Valeria Fedeli soffre ormai cronicamente: l'italianofobia. Si era materializzato per la prima volta l'anno scorso, #NoPanic, piegato allo stesso scopo e con la stessa C ammiccante (questa sì) agli usi immaginifici della generazione Internet. La giustificazione addotta dalla ministra, in quella circostanza, era stata doppia: evitare che il suo dicastero potesse essere «percepito come un luogo distante» e rivolgersi «in modo più diretto» ai maturandi. Non mi consta né mi constava allora che i nostri giovani e giovanissimi vantino, nel loro abituale repertorio, l'espressione no panic. Dell'inconsistenza giovanilistica di questa espressione, che si porta dietro, tutt'al più, il conforto intergenerazionale di no global e i suoi fratelli, si era accorta, nel giugno del 2017, anche una traduttrice, Licia Corbolante, titolare di un bel blog terminologico. Aveva pure notato, l'attenta Corbolante, la scarsa idiomaticità della locuzione inglese: perché, inglese per inglese, non si era optato semmai per don't panic, anche considerato il coinvolgimento nella campagna di Samantha Cristoforetti, apparsa tante volte dallo spazio proprio con la scritta don't panic? Sempre Licia Corbolante si era domandata, via social, perché mai fosse stata utilizzata la lingua inglese, anziché quella italiana, e ne era nato un siparietto che aveva visto coinvolti anche altri «naviganti». Tutto un programma la risposta di Alessandra Migliozzi, capo ufficio stampa del ministero di viale Trastevere: «Scelta comunicativa nostra. Obiettivo coinvolgere ragazzi non insegnare italiano. Un paio di anni fa usato #quasimaturi. Stavolta #NoPanic». Ma #NoPanic, dicevo, è soltanto la punta dell'iceberg. La sua parte sommersa ci dice della sempre più forte polarizzazione politica, ai tempi del renzese, fra un vecchio e un nuovo che non può evitare di coinvolgere le lingue. Nel 2010 Matteo Renzi e Pippo Civati, i «rottamatori» del Pd che avrebbero ben presto imboccato strade diverse, lanciano una kermesse, della durata di tre giorni, che si sarebbe ripetuta annualmente; si svolge alla ex stazione ferroviaria della Leopolda. La politica, disse allora Renzi, inaugurando l'evento, si sarebbe meritato qualcosa di meglio «del bunga bunga e delle società off-shore».
Già allora l'inglese gli piaceva parecchio, e avrebbe continuato ad attrarlo anche in seguito. La sua anglofilia è quasi un mantra, più simbolica che tecnica. Quella della nostra ministra dell'Istruzione non sa invece di nulla. Né di carne né di pesce.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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