Pare che in Vaticano si stia febbrilmente lavorando a una specie di vademecum sul peccato di corruzione. Il fatto è che, giustamente, l'attuale pontefice ha un particolare occhio per questo peccato, che non ha esitato, ogni volta che ne ha avuto l'occasione, a infilzare con le sue parole a braccio. La corruzione «spuzza», è una delle sue frasi a effetto, e preferita, tanto che ha dato luogo a un libro dallo stesso titolo, di Francesco Caringella e Raffaele Cantone. Che la corruzione sia un grave peccato è ovvio. E basta quanto dice la pagina di presentazione del libro suddetto a dar conto delle conseguenze di tale immorale condotta: «I soldi intascati dai corrotti significano opere pubbliche interminabili, edifici che crollano alla minima scossa di terremoto, malasanità, istruzione al collasso, cervelli in fuga, giustizia drogata, mancanza di investimenti stranieri, ambiente violentato, politica inquinata». Eccetera.
Ora, in tutti i Paesi democratici una notevole fetta della magistratura locale è alle prese con questo tipo di peccato. Che è anche a differenza di altri peccati - un reato. Pare che sia una specie di diciamo così - malattia professionale della democrazia. Il perché è ovvio: moltiplicato il numero dei politici e degli amministratori pubblici, si moltiplica anche il numero di color che son tentati. Questo papa, poi, essendo sudamericano, ha una particolare sensibilità per il tema, che, se in Italia è odioso, da quelle parti diventa un problema sociale. Ma puntare il focus su questo peccato non rischia di far non dico dimenticare ma almeno declassare gli altri nella mente dei fedeli? Se i peccati capitali sono dieci quanti i comandamenti, è pur vero che ogni epoca ha il suo peccato più capitale degli altri. Nel Medioevo, per esempio, molto gettonata era la simonia, cioè la compravendita di cariche ecclesiastiche. La situazione politica richiedeva che un vescovo fosse gradito al barone, o al re, nel cui territorio esercitava la sua giurisdizione.
Da qui, per esempio, il caso di Thomas Becket, imposto da Enrico II d'Inghilterra come primate di Canterbury. Becket, poi, anziché fare gli interessi del re fece quelli della Chiesa, e finì ammazzato (e canonizzato). In questo caso le cose formalmente filarono lisce, ma spesso la carica vescovile era barattata (se non pagata) in modo talvolta esplicito. Da qui la moda di accusarsi l'un l'altro di simonia, accusa che non risparmiava, talvolta, nemmeno i papi. Altro peccato temporalmente sottolineato era l'eresia. E anche questa accusa era brandita come clava contro gli avversari politici o culturali. Si trattava di «peccati» molto diffusi e, perciò, in auge. Passato il tempo, e saltando per brevità, nel secolo XIX e agli inizi del XX il peccato a cui la Chiesa fu più sensibile fu il modernismo, l'eresia antesignana dell'odierno progressismo, che allignava soprattutto tra il clero e contro il quale il papa san Pio X non approntò un vademecum bensì un'enciclica.
E un'organizzazione intraecclesiale che, discretamente, indagava sui preti in odore di modernismo. Venendo ai nostri tempi, all'epoca di Paolo VI il peccato capitalissimo era il divorzio, cui seguì a stretto giro di posta l'aborto. Al tempo di Giovanni Paolo II sembrò che il primato spettasse alla mafia.
Poi le cose si illanguidirono e la conferenza episcopale stilò un elenco di «peccati» che andavano dall'evasione fiscale al non rispetto dell'ambiente. Oggi è il turno della corruzione. Vabbé. Vedremo il domani che cosa ci porterà.
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