Ancora sotto la cenere, ma la brace iniziare a bruciare. Il livello di guardia, ci mancherebbe, è ancora lontano. E siamo nell'ambito di quelle tensioni che faticano ad esplodere alla luce del sole. Ma è del tutto evidente che con l'avvicinarsi del voto sul Quirinale- mancano ormai poco più di due mesi - la «pax draghiana» inizia a registrare qualche crepa. Ministri che non ti aspetti, per dire, seppure in off record non esitano a manifestare disappunto per la scelta di rimettere pesantemente mano alla manovra senza un nuovo passaggio in Consiglio dei ministri. «Conte, almeno, metteva agli atti un accorto "salvo intese"», si accalora un ministro che, peraltro, con l'autoproclamato "avvocato del popolo" non ha mai avuto alcuna consuetudine. D'altra parte, la legge di bilancio approvata all'unanimità lo scorso 28 ottobre - e subito illustrata in conferenza stampa da Mario Draghi e Daniele Franco- è stata rivista non poco. Sono passati 14 giorni e dai 185 articoli di allora si è passati a 219 di oggi. Prima dei due governi Conte, peraltro, le manovre che arrivavano in Parlamento contavano di media un centinaio di articoli (93, 108 e 122 le ultime tre).
Sottotraccia, insomma, monta un discreto malessere che accomuna molti partiti della maggioranza. Tanto che martedì Draghi aveva inizialmente messo in conto un Consiglio dei ministri per ratificare le novità. Ipotesi poi archiviata quando a Palazzo Chigi è apparso chiaro che sarebbe stata solo la certificazione di un enorme autogol. Retromarcia che ha scontentato tutti i partiti, rimasti silenti solo grazie alla moral suasion del Quirinale. Che Draghi si muova in stretto coordinamento con il Colle, d'altra parte, non è una novità.
Inatteso, invece, è l'approccio dell'ex numero della Bce. Che sembra aver messo da parte il suo proverbiale decisionismo in nome di un nuovo ecumenismo. Raccogliendo, più o meno, le istanze di tutti: il reddito di cittadinanza per il M5s, l'opzione donna per il Pd, il blocco del catasto e i balneari per il centrodestra e in particolare per la Lega. Tutti contenti, insomma. Che poi è lo stesso di tutti scontenti, perché ormai l'aria che si respira tra Camera, Senato e Palazzo Chigi è che Draghi abbia deciso di tirare il freno a mano in attesa della partita del Colle. Non è un mistero, d'altra parte, che il Parlamento attenda la manovra - che dovrebbe finalmente arrivare in Senato domani - ormai da venti giorni. Un rallentamento che coinvolge tutta l'attività di governo, compresi gli impegni collegati al Recovery plan, visto che al momento- ha detto due giorni fa Franco - «l'Italia ha raggiunto 28 obiettivi su 51 del Piano di ripresa e resilienza». Quindi, ha ammesso il ministro dell'Economia, «ne mancano 23» che saranno «chiusi per la fine dell'anno». E la frenata inizia a essere così percepita all'esterno che proprio ieri Palazzo Chigi ha provato a rintuzzare i rumors facendo sapere che «dal suo insediamento il governo ha "smaltito" 549 provvedimenti». Dato che emerge dalla relazione sull'attuazione del programma di governo elaborata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli (nel tondo).
In questo scenario complessivo, dunque, restano sullo sfondo gli screzi delle ultime ore. Quelli con Matteo Salvini (che non gradisce l'esclusione dal vertice di martedì e invoca una cabina di regia anche sul * reddito di cittadinanza) e quelli con il M5s (che ieri vagheggiava di non votare in Cdm il dl sul superbonus edilizio). Agitazioni che sono il risultato del cambio di passo di Palazzo Chigi, dove gli occhi sono tutti puntati sulla partita quirinalizia. Draghi, come è giusto che sia, non si cura pubblicamente della cosa.
Anzi, ricordando Ugo La Malfa in occasione della presentazione del suo archivio digitale, cita il «non governo» come «l'incapacità di affrontare i problemi» e auspica che gli sia «contrapposto» il «coraggio delle riforme».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.