L'inaugurazione l'aveva già rovinata uno scrittore caro alla sinistra come Gianrico Carofiglio. Nel salotto di Lilli Gruber, lo scrittore aveva puntato il dito contro la kermesse voluta dal premier: «Gli Stati generali? Un'operazione propagandistica». Poi si era spinto fino in terra sconsacrata: L'opposizione fa bene a non andare». L'opposizione è rimasta a casa, benedetta persino da chi di solito è dall'altra parte della barricata. E a Carofiglio, in un gioco raffinato di specchi, si è affiancato un altro grande narratore a lui non proprio omologabile come Pietrangelo Buttafuoco: «Gli Stati generali serviranno più al futuro di Conte che a quello dell'Italia».
Certo, c'è il precedente storico assai ingombrante di quelli convocati da Luigi XVI che aprirono la strada alla Rivoluzione e finirono malissimo per il re. Ma senza evocare decapitazioni e ghigliottine, basta la cronaca per capire che qualcosa non quadra. A Villa Pamphili si disegnano scenari di grandeur, si progettano piani di rilancio, si susseguono le relazioni di menti brillanti; fuori il Paese arranca, la cassa integrazione non è ancora arrivata in tutte le famiglie e molte aziende hanno dovuto anticiparla, scuola e giustizia sono di fatto ancora in pieno lockdown, molti negozi rischiano di non riaprire più.
E così le requisitorie si fanno sempre più affilate e pungenti. Barnabò Bocca, presidente di Federalberghi, scaglia parole durissime: «Siamo un settore che vale il 13 per cento del Pil e siamo fra quelli più colpiti. Eppure non siamo stati invitati agli Stati generali, mentre ci sono sigle sconosciute, saranno amiche di qualcuno al governo».
In effetti il settore attraversa una crisi spaventosa: 350 mila stagionali rimarranno a casa su 500mila totali, il 95 per cento delle strutture ha i dipendenti in cassa integrazione e le prenotazioni, ormai in periodo di vacanze, non decollano. La cartolina Italia - la ricettività, l'arte, le grandi fiere - è stata stracciata dal Covid, ma Bocca non è stato chiamato. Però, vai a sapere, la campanella potrebbe sempre suonare all'ultimo minuto e allora il leader degli albergatori si inalbera ancora di più: «Non è mica un invito al ristorante. Parliamo di prospetti economici, di rilancio, di progetti, e noi non sappiamo se dobbiamo andare agli Stati generali? Ma che storia è questa?».
Insomma, Conte viaggia nel futuro, forse perché il presente è un ripetersi di segni meno, di pil in caduta libera, di licenziamenti fermi solo per decreto. Il Paese è su un piano inclinato, dentro si va avanti. Il lunedì è il giorno dei sindacati e di Vittorio Colao, il supermanager chiamato a spiegare il programma, elaborato dalla sua task force, in cui molti avevano riposto le speranze di ripartenza. Oggi Colao è solo un punto in un'agenda fittissima. Forse gli Stati generali sono il quaderno di Colao al cubo o all'ennesima potenza. Meglio masticare i grandi evergreen: la digitalizzazione, la sburocratizzazione, la semplificazione e accatastare punti su punti, dettagli su dettagli. Nove capitoli, 55 voci.
Qualcosa si farà. Ma cosa? Fuori dalla residenza seicentesca un centinaio di studenti protesta e lancia slogan. Ma la manifestazione è parte della coreografia di tutti i vertici. Potere & contropotere. Quel che fa male sono le punture di spillo, acutissime, di Confindustria. Il presidente Carlo Bonomi non fa sconti: «Mi sarei aspettato che il governo presentasse un piano ben preciso, dettagliato, con un cronoprogramma, ma questo piano non l'ho visto, sarei curioso di leggerlo, vorrei ascoltarlo».
Bonomi non ama la nouvelle vague, a maggior ragione in un momento così complicato, e allora marca le differenze in vista del suo arrivo a Villa Pamphili, previsto per domani: «Noi abbiamo idee precise e le diremo come sempre».
Intanto, il leader degli imprenditori assesta l'ultima bacchettata: «C'è una propensione del pubblico ad entrare come gestore. Basta vedere Alitalia ed Ilva per capire i danni che questa mentalità ha prodotto». Altro che Stati generali.
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