Vallo a dire alla mamma di Mattia, 8 anni, che una mappa segnava in rosso acceso la zona della loro casa. Vallo a dire alla famiglia di Noemi, 17 anni, che quella mappa era in mano a Comuni, Regione, Protezione civile.
Tutti erano a conoscenza del rischio di alluvione ma tutti avevano lasciato quella cartina chiusa nel cassetto. «Lungaggini burocratiche» è la spiegazione. Un alibi che in Italia va sempre bene a coprire inefficienze e, forse, irresponsabilità. Fatto sta che quel documento, tecnicamente chiamato Pai (piano di assetto idrogeologico), era stato steso già nel 2004, poi aggiornato nel 2016 e infine approvato lo scorso maggio. Circolava da un'infinità di mesi ma da un'infinità di mesi è rimasto carta morta. Ignorato. Anzi, nel frattempo le Marche hanno fatto in tempo a finire sott'acqua per un'altra alluvione, nel 2014, oltre a quella della scorsa settimana.
Stendere e aggiornare le cartine del rischio idrogeologico è un obbligo di legge dal 1998, cioè dall'alluvione di Sarno e Soverato in Campania, proprio per evitare stragi senza preavviso come in quell'occasione, quando ci furono 161 vittime.
«Qui ogni vallata è a rischio - ammette Daniele Mercuri, consigliere nazionale marchigiano dei Geologi - Non a caso dagli anni Settanta a oggi, siamo stati colpiti da oltre dieci eventi di questa portata. L'aggiornamento della mappa del rischio idrogeologico è un lavoro molto impegnativo, per quello non viene fatto così di frequente, gli aggiornamenti sono soggettivi da comune in comune». A Senigallia il piano c'era ed era anche parecchio preciso. Ma è rimasto teoria.
Le zone colorate in rosso sulla cartina corrispondono perfettamente a quelle dei paesini in cui nemmeno è stato lanciato l'allarme alluvione: Pianello di Ostra (dove le vittime sono state 5), Barbara (2 vittime e un disperso), Trecastelli (una vittima). E, cosa che stupisce ancora di più, coincide con le zone in cui mai è stato organizzato un corso per spiegare agli abitanti cosa fare in caso di esondazione dei fiumi. Altrimenti le persone non sarebbero scese in garage per salvare l'auto o, se avessero cercato di fuggire in macchina, almeno avrebbero saputo che strada imboccare per non finire sott'acqua.
«Risulta evidente che siano necessari diversi interventi per potere mettere in sicurezza il fiume Misa, in particolar modo all'interno dell'abitato di Senigallia e poco a monte dello stesso» si legge nell'assetto di progetto per la media e bassa valle del Misa. Un documento datato 2016. Per ridurre «il più possibile la portata di picco che attraversa il centro di Senigallia - si legge - bisogna intervenire mediante «laminazione e aumentare il più possibile la capacità di deflusso». Un testo che fa male letto ora, quando altro non si può fare che la conta dei danni e dei morti.
Non solo. A Senigallia a gennaio l'esecutivo aveva finalmente approvato i lavori per le vasche di contenimento, concludendo un iter burocratico che andava avanti da anni, tra espropri, polemiche e chissà cos'altro. Ad aprile erano anche stati consegnati i lavori: 510 giorni di cantiere per mettere in sicurezza il fiume. Ora ci vorranno altro che cinquecento giorni. I soldi c'erano, stanziati dal 1986.
«È stato fatto poco» spiega il sindaco di Senigallia Massimo Olivetti. Nel 2018 le prime gare d'appalto, con la realizzazione dei lavori solo in un tratto di fiume e poi il blocco per problemi di valutazione di impatto ambientale. Nel 2021 il progetto viene rimodulato per utilizzare gli oltre 900mila euro già stanziati e solo lo scorso aprile viene consegnato il cantiere per le vasche di espansione in zona Bettolelle, la stessa dove l'altra sera è morto un anziano intrappolato in casa dall'esondazione.
«Nel 2015 abbiamo fatto un lavoro di ricognizione delle risorse, mettendo insieme quelle delle Province, statali, regionali e anche fondi Ue - spiega l'ex presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli -, non abbiamo mai tolto un euro per quell'intervento, anzi li abbiamo aggiunti. Ma la verità è che in Italia è impossibile fare lavori, c'è troppa burocrazia».
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