Alla fine Marco Damilano ha recitato il «mea culpa». Ieri sera, in apertura del suo programma Il cavallo e la torre di Raitre ha detto - come stabilito dall'Agcom - che l'ospitata di Bernard Henry-Lévy ha violato «i principi di pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà e imparzialità dell'informazione» necessari durante la campagna elettorale. Ha recitato l'ordinanza dell'Autorità con un'aria un po' sprezzante, velocemente, chiosando: «Fatto. Andiamo avanti». Come a dire: caso chiuso. E poi, alla fine della puntata, ha ricordato l'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero, per dire insomma che ha sì ubbidito, ma che non ritiene di aver sbagliato.
Il filosofo francese - lo ricordiamo - intervistato lunedì da Damilano aveva detto che in Italia corriamo il rischio del ritorno del fascismo, che Salvini è un «traditore» vicino ai russi e che il voto popolare non sempre va rispettato. Parole che hanno scatenato le ira del centrodestra e che hanno portato l'Authority a esprimersi contro la trasmissione.
Il caso, comunque, non è così chiuso. Prima di tutto perché questa faccenda rimarrà una macchia nella - finora - breve carriera dell'ex direttore dell'Espresso in Rai e ogni suo passo futuro sarà messo sotto la lente d'ingrandimento, figuriamoci poi se vince il centrodestra. In secondo luogo perché ha scatenato il dibattito sulla par condicio, la legge che obbliga le tv e le radio a garantire parità di trattamento e rappresentanza all'interno delle trasmissioni.
In una nota il Partito Democratico sostiene che «la decisione di Agcom è grave e incomprensibile nei modi e nei tempi, colpisce la libertà di espressione e completa una gestione profondamente insoddisfacente della materia da parte del Consiglio Agcom. L'Authority ha emanato, a maggioranza, una sanzione su una singola trasmissione in ragione delle opinioni liberamente espresse e chiaramente attribuibili ad un ospite. Al tempo stesso non è ancora intervenuta su palesi e gravi casi di informazione parziale, scorretta e non veritiera in alcuni telegiornali dell'emittenza privata contro il Partito democratico e il segretario Letta». Il Pd proporrà al nuovo Parlamento «una riforma della legge 28/2000 e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina». Risponde la Lega con le parole di Luca Toccalini, responsabile Giovani del partito: «Caro Pd, la Rai non è cosa vostra, ma di tutti gli italiani. La decisione dell'Autorità è sacrosanta. Il fatto che ora i signori del Nazareno pretendano la riforma della stessa Agcom è il sintomo più evidente di un partito terrorizzato dalla sconfitta elettorale».
Il fatto paradossale è che a chiedere la riforma della legge è il Pd che, all'epoca, quando si chiamava Pds, ne fu artefice insieme all'Ulivo. Però, ora che viene fatta rispettare per un giornalista che sta dalla stessa parte politica, non va più bene. Quando ci si riferisce ai «meccanismi» di nomina, si intende che gli attuali commissari sarebbero tutti di parti politiche non vicine al Pd.
E anche questo ha del paradossale perché la delibera ha avuto un solo conto contrario (su 5 componenti, di cui un ex esponente del Pd): quello di Elisa Giomi, professoressa di sociologia, secondo cui «il conduttore ha preso efficacemente le distanze dalle dure affermazioni dell'ospite».
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