Rimarrà nella storia repubblicana del premierato come il banchiere con il cuore. Ieri Mario Draghi, salutando la Camera dei deputati, dove è stato accolto da un lungo applauso, con una malcelata commozione e una certa autoironia ha replicato la battuta sentimentale consegnata pochi giorni fa alla stampa estera: «Certe volte anche i banchieri usano il cuore». Passione e impeto. Letteralmente: «Sturm und Draghi». Come uscita di scena, non male. Un buon sceneggiatore del Centro Sperimentale di Cinematografia difficilmente avrebbe fatto meglio, figuriamoci un ghostwriter di Palazzo Chigi.
Primo ministro già rimpianto da mezzo Paese, un po' meno dall'altra metà, banchiere che ci invidia il mondo - ma come sapevano bene i latini Nemo propheta nell'Urbe, zona Piazza Colonna - leader di molte doti ma uomo di poche parole, Mario Draghi in realtà non ha mai dato il meglio di sé nei discorsi. In conferenza stampa, parlava in draghese, obtorto collo. Fuori dalle sedi istituzionali, meno che meno. In Parlamento, lo stretto necessario. Mercoledì, del resto, il discorso al Senato a molti è sembrato eccessivamente ruvido, ad alcuni persino spocchioso - «Se sono qui è perché me l'hanno chiesto gli italiani» a ripensarci bene non è stato un grande passaggio - molto di carattere ma poco politico. Il cuore va bene, ma devi usarlo al momento giusto: perché ieri e non il giorno prima? Quei toni li usa un preside di Liceo spazientito davanti a una classe irrequieta, non il premier di una «larga maggioranza» che comunque deve tenere insieme... Un po' meno hybris, un po' più equilibrio e probabilmente Mario Draghi sarebbe ancora al suo posto.
Viceversa il suo lascito politico sarà un discorso in cui invece che compattare l'Aula l'ha divisa; al posto di lusingare i suoi sostenitori, li ha mortificati; è entrato per parlare agli amici ed è uscito che se li era fatti nemici. Doveva fare il politico, ha preferito restare un banchiere, e così si ritrova fuori dal Palazzo senza più i gradi da Generale, tenendosi però stretto il cursus honorum alla Bce.
E siamo al cuore del problema. «Il cuore dice una cosa, la testa un'altra», ed è il bivio davanti a cui si è trovato Mario Draghi quando è entrato nell'Aula del Senato. «Buttare il cuore oltre l'ostacolo per salvare le sorti del Paese», ma non ce l'ha fatta perché troppo tecnico e burocrate e troppo poco politico e politicante. «Ci vuole cuore per governare, ma fegato per mandare giù tutto», e Draghi ne ha avuto poco: non sa fare ciò di cui i grandi leader, Giulio Andreotti insegna, erano maestri: ingoiare i rospi per il bene proprio e dell'unità nazionale. «Grazie di cuore, Presidente», e per tanti versi è innegabile. Come del resto il fatto che a un certo punto si era capito che «Aveva in cuor suo il desiderio di uscire a testa alta». Ci è riuscito. «Avere a cuore gli affari», e per Mario Draghi, esperto di Economia e Finanza, è stato facile. «Chi ha provocato la crisi di governo non ha cuore»: concetto che sarà argomento di dibattito e di pesanti rinfacciamenti da qui alle elezioni. «Se ne va con il dolore del cuore», ma chissà: e se adesso Mario Draghi diventasse il leader ombra di un nuovo partito? Però, insomma, «Se hai il senso delle istituzioni e davvero a cuore il tuo Paese» non ti comporti in maniera così rigida. «A me piange il cuore nel vedere che a Mosca stavano brindando...
», ma non è che stiamo esagerando con i complottismi? E comunque, come sempre accade in Italia, «Al cuore non si comanda». Ma alla brama di un'altra poltrona ancora meno. Che poi è il motivo per cui molti si stanno già riposizionando al centro. Ecco ciò che davvero fa male al cuore.
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