Jay il Temporeggiatore è uscito di scena, congedato dagli spifferi gelidi che arrivano dal mercato del lavoro Usa. Per la Federal Reserve «è arrivato il momento di ridurre i tassi». Incurante della probabile reprimenda di Donald Trump, Jerome Powell ha provato a riappropriarsi ieri, al simposio delle banche centrali di Jackson Hole, del piglio decisionista che ne aveva caratterizzato il mandato ai tempi del Covid prima e durante il germinare dell'inflazione poi. I mercati hanno incassato la conferma che la Fed ha il colpo in canna ed è pronto a spararlo in settembre, con ciò agevolando le decisioni della Bce di Christine Lagarde, con una reazione da manuale: su le Borse, pur senza fanfare (+0,5% Wall Street a un'ora dalla chiusura, +1% Milano, +0,5% l'Eurostox600), giù i rendimenti dei titoli del Tesoro americano, col decennale sceso al 3,814%.
È una risposta, quella dei mercati, che tiene conto dell'ormai certo cambio di rotta, ma anche dall'obiettivo che lo accompagna. Eccles Building ha infatti compiuto il suo «turnaround», con l'asse che si sposta dalla lotta al caro-prezzi alla tutela dei posti di lavoro per impedire che le crepe, già rese visibili dal tasso di disoccupazione risalito al 4,3% e dagli 800mila «new jobs» in meno creati fra l'aprile del 2023 e il marzo del '24, si allarghino ancora. «L'equilibrio dei rischi per i nostri mandati è cambiato e i rischi al rialzo per l'inflazione sono diminuiti, mentre i rischi al ribasso per l'occupazione sono aumentati. Non siamo disposti ad accettare un ulteriore raffreddamento del mercato del lavoro», ha sottolineato Powell.
La lunga lotta al carovita è quindi ormai conclusa, e se ne apre un'altra dall'esito però non del tutto scontato. Con il sostanziale immobilismo mantenuto nei mesi scorsi malgrado si intensificassero i segnali di deterioramento congiunturale e si continuasse a far affidamento sui dati (gonfiati) del Bureau of Labor Statistics per sorreggere la narrazione sulla resilienza del mercato del lavoro, la Fed potrebbe aver commesso lo stesso errore di quando giudicò «temporanea» l'inflazione. Con una battuta, Powell si è giustificato ieri ricordando che «La buona nave Transitory era affollata», poiché tutte le banche centrali sottovalutarono il fenomeno e furono poi costrette a usare brutalmente, e in fretta, l'arma dei tassi per contrastare il carovita. Purtroppo, il «mal comune, mezzo gaudio» non vale per la politica monetaria.
Il ritardo con cui la banca centrale si è mossa potrebbe ora costare altrettanto caro. È vero che Powell ha sottolineato come l'attuale livello dei tassi (al 5,25-5,55%) «ci offra ampio margine per rispondere a qualsiasi rischio», ma è altrettanto vero che il nodo da sciogliere è con quale intensità si opporrà ai venti di recessione. Al momento il FedWatch Tool di Cme Group accorda il 100% di probabilità a una mini-riduzione da un quarto di punto nella riunione del 18 settembre, mentre sono appena pari al 32,5% le chance legate a una sforbiciata di mezzo punto.
I mercati si aspettano quindi una Fed ancora guardinga almeno fino a al vertice del 7 novembre, quando la corsa per la Casa Bianca sarà ormai conclusa. «La direzione del nostro lavoro è chiara. Il momento e la portata dei tagli ai tassi dipenderanno dai prossimi dati, dall'outlook in evoluzione e dal bilanciamento dei rischi», ha detto Powell. E anche dal voto ormai alle porte.
Solo il pessimo andamento dell'occupazione in luglio (il dato è in calendario il 6 settembre) potrebbe convincerlo a rompere gli indugi il mese prossimo infischiandosene delle prevedibili accuse di voler servire un assist, tramite un taglio-jumbo, a Kamala Harris.
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