Finita la supremazia tedesca: i compiti a casa toccano a loro

Per anni Berlino ha imposto all'Ue regole e trattati cuciti su misura per la propria economia. Il caso Volkswagen ha scoperchiato il calderone: adesso la storia va riletta

Finita la supremazia tedesca: i compiti a casa toccano a loro

Può capitare che un singolo episodio possa determinare un cambiamento repentino nel giudizio storico di avvenimenti molto più complessi. La crisi della Lehman Brothers del settembre 2008, ad esempio, comportò una drastica rivisitazione del ruolo avuto da Alan Greenspan, nella sua lunga gestione della Fed: la banca centrale degli Stati Uniti. Era considerato l'artefice del grande successo americano degli inizi del Terzo millennio. Il grande guru dell'economia, capace di scongiurare lo spettro di un declino annunciato da altri autorevoli storici come Kindleberger, fu, invece, rapidamente disarcionato. Ritenuto uno dei principali responsabili del moral hazard (l'azzardo morale), per l'eccesso di liquidità prodotta sui mercati internazionali, cadde rapidamente dalle stelle alle stalle. Qualcosa del genere sta avvenendo in Germania dopo lo scandalo Volkswagen. L'imbroglio sofisticato del dieselgate ha imposto una rivisitazione dolorosa della più recente storia tedesca. Costringendo analisti e ricercatori a spulciare in archivi polverosi alla ricerca delle ragioni più profonde, che avevano reso possibile il grande inganno.

Ed ecco allora scoprire la determinazione, tutta teutonica, nell'imporre al resto dell'Europa regole tecniche che si conformassero al proprio modello industriale, anche quando esse contraddicevano le best practices internazionali. Dall'uso dei gas refrigeranti dei condizionatori, al riciclo degli apparecchi medicali. Dall'utilizzo disinvolto del carbone, per produrre energia; alle norme sulla liberalizzazione del trasporto ferroviario. Per terminare con la zona franca, richiesta ed ottenuta, per le Landesbank - le banche regionali - sottratte alla vigilanza unica europea. Insomma: ciò che andava bene alla Germania doveva andar bene all'Europa. Ma ciò che potesse limitare, in qualche modo, l'economia tedesca non aveva diritto di cittadinanza. Nonostante l'esistenza di questo privilegio, il caso VW ha dimostrato che l'ingordigia non ha mai fine. Fino ad un punto limite oltre quale si manifesta il crollo.

Bisogna risalire fin dai tempi della sua riunificazione, per capire il dipanarsi di una vicenda più complessiva. Fin da allora prevalse il sacro egoismo di una scelta, motivato da nobili sentimenti. Ma con il conto fatto pagare soprattutto agli altri. Una politica economica, esclusivamente attenta ai problemi degli equilibri interni - essenzialmente preoccupata di garantire un cambio one to one tra le due vecchie Repubbliche - ebbe come conseguenza la crisi dello Sme: con il crollo della lira e della sterlina, fin troppo sopravalutate. E l'avvio in Italia di quel processo di decomposizione politica, che portò, nel 1992, alla fine della Prima Repubblica. Obiettivi che condizionarono gli anni immediatamente successivi, quando le attenzioni dell'establishment tedesco furono tutte concentrate sulla necessità di una riconversione produttiva interna, che unificasse il Paese sui nuovi standard produttivi dell'Occidente.

Fu soprattutto Gerard Schröder a realizzare quel piccolo miracolo, con la sua Neue Mitte : la Terza via che cambiò volto all'Spd. Gli ingredienti di quella politica furono, da un lato, l'introduzione di maggiori elementi di flessibilità e precarizzazione nel mercato del lavoro; dall'altro, una politica di bilancio espansiva, caratterizzata da ingenti trasferimenti ai lander orientali. Tali da far impallidire, in un solo anno, l'intero intervento italiano per il suo Mezzogiorno. Fu soprattutto Peter Hartz, non a caso alto dirigente di Volkswagen, ad incaricarsi della prima bisogna. Misure rivolte ad accrescere la produttività, un salario sempre più agganciato ai risultati conseguiti ed, inevitabilmente, tanti disoccupati. Una parte dei quali furono riassorbiti nei settori meno efficienti dell'economia con i mini-jobs: un salario di 400 euro mensile, part-time e servizi gratuiti offerti dalle strutture pubbliche, il cui costo fu posto a carico dello Stato. L'alternativa a quello che poteva essere il salario minimo garantito. Il Piano si articolò in quattro successivi interventi. Poi lo stesso Hartz, travolto da uno scandalo finanziario, fu costretto alle dimissioni.

Gli anni dell'incertezza durarono dal 2001 al 2005. Durante questo periodo il mito della stabilità finanziaria fu messo tra parentesi e la stessa virtuosa Germania decisa a non rispettare la rigida regola del 3 per cento, prevista dai parametri di Maastricht. Ma nessuno sollevò obiezioni. Intanto l'industria macinava profitti. La bilancia dei pagamenti raggiungeva rapidamente il pareggio (2001). Quindi si trasformava in un surplus sempre più consistente. Fino a raggiungere quasi l'80 per cento di quello dell'intera Eurozona. Una piccola Cina, nonostante i Trattati avessero indicato vincoli precisi, che venivano regolarmente superati. Ma quel surplus serviva per consolidare ulteriormente le basi produttive del Paese. Per foraggiare un sistema finanziario che, grazie a quelle risorse, poteva muoversi con grande libertà lungo le rotte del mercato internazionale. Shopping di aziende estere, delocalizzazione verso i territori dell'ex Unione sovietica, semplici impieghi speculativi, come quelli a favore della Grecia, già allora ad un passo dal default.

Quel circolo virtuoso avrebbe, ben presto, contribuito a ridurre il peso del debito sovrano in relazione al Pil, creando nuove occasioni per attirare capitali dall'estero. Con il Bund - il titolo di Stato - divenuto ormai il parametro di riferimento, con cui misurare il grado di solvibilità (virtù) degli altri Paesi membri, segno premonitore della conquista di un primato. La premessa per consentire alla Germania il passaggio alla fase due: l'esercizio effettivo di supremazia, sempre più solitaria ed egoistica, sui destini dell'intera Europa. Il miracolo tedesco diventava così la stella polare delle nuove regole comunitarie.

Silvio Berlusconi, che non accetta questo stato di cose e minaccia di porre veti è rapidamente isolato. Gli rimproverano oltretutto quella politica estera autonoma di cui Pratica di Mare (maggio 2002), con la congiunta presenza di Putin e Bush, fu un piccolo capolavoro. Complice Giorgio Napolitano, inizia la caccia: il dipanarsi di quel complotto che, a partire dal 2010, utilizzerà mezzi diversi per giungere alle dimissioni dell'ultimo presidente del Consiglio eletto dal popolo. Le grandi manovre finali iniziano nell'estate del 2011 e si concludono il 12 novembre con le dimissioni di Silvio Berlusconi. Il resto è cronaca recente. Mario Monti accetta l'incarico a presidente del Consiglio. La sua adesione alla religione tedesca è totale. La sua politica economica è orientata solo in senso deflazionistico, nell'illusione che i «compiti a casa» possano far fronte ad errori - il cambio euro-lira - che da anni travagliano l'economia italiana.

Oggi si scopre invece che il simbolo stesso dell'industria tedesca, la «macchina del popolo», era solo taroccata. Che l'uso di un sofisticato software non era rivolto a migliorare la sicurezza del veicolo, ma solo a turlupinare gli acquirenti. Che il rispetto dell'ambiente, come del resto tutta la retorica sul primato morale dei tedeschi, era solo un esercizio retorico, con cui condire puri interessi di bottega. Per difendere quella politica mercantilistica, segnata dal prevalere di un surplus che rappresentava il motore effettivo della sua forza economica e finanziaria. Sull'altare del quale sacrificare ogni principio. Questa oggi è la prospettiva più inquietante, che può trascinare l'intera Europa nel baratro. Europa che ancora può salvarsi. Ma a condizione che questa volta sia la Germania a ravvedersi, che faccia lei i «compiti a casa» dando sostanza reale a quell'economia «sociale di mercato» che fu il sogno dei suoi padri fondatori. Le ricette sono note da tempo: si chiamano reflazione e si fondano sul rilancio della sua domanda interna. Come elemento indispensabile per un riequilibrio europeo, che la crisi indotta da VW renderà ancora più difficile da perseguire. Una prospettiva sulla quale insistiamo da tempo, sperando che lo stesso Matteo Renzi, alla fine, possa prestare orecchio.

La crisi della Volkswagen segna comunque la fine di una supremazia che non ha avuto la forza di trasformarsi in reale egemonia, tanto responsabile quanto generosa, avendo scaricato sugli altri Paesi il costo delle proprie interne contraddizioni. Di tutto ciò, Angela Merkel e gli altri dirigenti tedeschi devono prendere atto al più presto. E comportarsi di conseguenza. Nessuna previsione, ma forse è iniziato un conto alla rovescia che potrebbe cambiare il volto della Germania che finora abbiamo conosciuto. Noi speriamo che questo avvenga nel più breve tempo possibile. Niente di personale: per carità.

È il patologico organicismo tra potere politico e potere economico che preoccupa: quell'intreccio tra industria, finanza e politica che nella tradizione tedesca è stata una costante. Ma una costante che non ha mai prodotto alcunché di buono e che la «ragazza venuta dall'Est» ha voluto istintivamente riprodurre. Ma la storia, almeno questa storia, sembra ormai finita.

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