
Di dichiarazioni ottimistiche sulla fine della guerra ne sono state fatte a iosa come pure di scommesse su una tregua pasquale ma le bombe continuano a cadere, i droni a solcare i cieli, gli impianti energetici a bruciare. Sulla pace si versano fiumi, ma i fatti latitano. La nuova moda prevede di denunciare le violazioni di una mezza pace che non è mai stata sottoscritta. È la tipica situazione di stallo che consuma ogni tregua ancor prima che sia siglata. Tutto è sospeso nel vuoto di un conflitto che è ben lungi dal cessare.
Una «sindrome dello stallo» che fa comodo a molti. Di riffa e di raffa quasi a tutti. A Donald Trump che aveva promesso di disarmare i cannoni in 24 ore. Sono passati più di due mesi dal suo insediamento e siamo ancora là. Non c'è pace, ma si parla molto di pace. Per cui nessuno può dire che abbia fallito e può ancora accarezzare il sogno di avere il premio Nobel in barba ad Obama. Ma mentre i combattimenti continuano, il presidente Usa porta a casa condizioni economiche vantaggiose: si racconta addirittura che nell'accordo per lo sfruttamento delle terre rare, una clausola obblighi l'Ucraina a risarcire le aziende a stelle e strisce che sfrutteranno i giacimenti dei danni che potrebbero subire se i russi tornassero a bombardare. Il paradosso di un accordo capestro.
Una proposta, si diceva ai tempi del padrino, che Zelensky non può rifiutare. Come pure il presidente ucraino, cioè la vittima sacrificale della strana trattativa, deve subire «lo stallo» per forza di cose. È obbligato a fare buon viso per non inimicarsi il più umorale tra gli inquilini della Casa Bianca, nel tentativo di dimostrare che chi non vuole davvero la pace vive al Cremlino. In fondo per lui è meglio lo stallo che una pace ingiusta o disonorevole. C'è sempre la speranza - remota - che l'amico ameriKano rinsavisca.
Lo stallo sta bene pure alle cancellerie europee. Della pace di cui dissertano a Mosca e a Washington nulla è chiaro e molto è oscuro. Un fatto è certo, però, non piacerà all'Europa che non a caso è stata tenuta fori dalla tavolo dei negoziati. Per cui tanto vale guadagnar tempo: in fondo la difesa europea - si parli dei volenterosi promossi da Parigi e Londra, del riarmo tedesco o di quello dell'Unione - ha fatto più progressi nell'ultimo mese che in quarant'anni. Meglio lo «stallo» che una pace ingiusta, meglio guadagnar tempo che un'intesa foriera di futuri guai. E in fondo Bruxelles ha gli strumenti per raggiungere l'obiettivo. Ad esempio, Mosca ha fatto sapere che la tregua sul trasporto del grano nel mar Nero entrerà in vigore solo se saranno tolte le sanzioni nel settore agricolo. Quelle sanzioni, però, dipendono più dall'Europa che dagli Stati Uniti.
E arriviamo all'ultimo giocatore, a Vladimir Putin. È quello che ci guadagna di più dallo stallo perché non vuole la pace ora. Vuole conquistare altre due regioni. Gli ucraini ipotizzano un'offensiva russa a primavera. Quindi tergiversa, disserta di pace per non incorrere nella rappresaglia di Trump ma non l'attua. Punta, soprattutto, a mettere Washington sempre più contro Zelensky. Tattica che gli riesce alla grande. Del resto per gabbare un'amministrazione americana che fa finire i piani di guerra, i cellulari, le e-mail e le password del consigliere per la sicurezza nazionale e del segretario della Difesa sui giornali, non ha bisogno degli scacchi, gli basta il rubamazzetto.
Fa come il gatto con il topo. Finché gli altri tre giocatori non saranno uniti, si ritroverà ad essere centrale, sarà lui a decidere cosa si può e cosa non si può fare. Ad esempio, che i soldati nord-coreani possono essere impiegati in Ucraina, mentre i «volenterosi» no. Checché ne dica Trump, è Putin a dare le carte.
Più o meno come un omino con i baffetti 90 anni fa a Monaco. E magari qualcuno fra qualche tempo ricorderà la vecchia frase di Churchill: «Potevate scegliere tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore e avrete la guerra».
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