Åsne Seierstad è famosa per i suoi libri/reportage, il bestseller Il libraio di Kabul e il bellissimo (e durissimo) Uno di noi su Anders Breivik, il terrorista responsabile della strage di Utoya; ma la giornalista norvegese ha iniziato a lavorare come inviata di guerra, a 25 anni, in Cecenia. È andata a Grozny nel 1995, durante la prima guerra cecena; poi è tornata nel 2006, durante la seconda, e ha raccontato la sua esperienza in Il bambino dal cuore di lupo. Storie dall'inferno della Cecenia in guerra (edito da Rizzoli, come tutti i suoi libri). Parla al telefono da Kabul, dove progetta di rimanere, a mesi alterni, fino all'estate, per un nuovo libro, in cui raccontare «un anno di regime talebano».
Åsne Seierstad, lei conosce le guerre russe. Vede similitudini fra l'Ucraina e la Cecenia?
«Innanzitutto, in entrambi i casi, la Russia non la chiama guerra. In Cecenia era una operazione di controterrorismo, oggi si parla di pulizia o denazificazione: come se le regole della guerra non si applicassero, perché di fronte ci sono dei terroristi, o dei nazisti. Poi, le morti di civili. Solo nei primi giorni in Ucraina i russi hanno colpito obiettivi militari, poi sono passati a uccidere i civili».
La distruzione totale?
«Esatto. Ricordo bene Grozny: non c'era un solo edificio in piedi. Rasa al suolo, come Dresda dopo la Seconda guerra mondiale. E poi, in entrambi i casi, i russi sembrano sorpresi di incontrare resistenza: in Cecenia pensavano di impiegare due ore...»
Qui?
«Qui non pensavano di impiegare due ore, ma sono sorpresi lo stesso. Come se Putin avesse iniziato a credere alle sue stesse bugie, al fatto che l'Ucraina aspettasse di essere salvata e volesse tornare a far parte della Russia...»
Altre somiglianze?
«La mancanza di un piano B. In Cecenia, anziché due ore i russi sono rimasti due anni e ci sono stati migliaia di morti. Poi hanno accettato di avere perso, ma allora c'era Eltsin al potere, non Putin. Che poi è tornato. Quanto alle differenze, la Cecenia è piccola, ha un milione di abitanti e non aveva né esercito, né rifornimento di armi».
Al contrario dell'Ucraina.
«Che è molto grande, ha un esercito, e riceve armi dall'Occidente. Inoltre, ucraini e russi condividono una cultura, una religione e una lingua simili e hanno legami strettissimi, anche di parentela; i ceceni sono una popolazione totalmente diversa. Ma la differenza più grande siamo noi».
Ora ci schieriamo?
«Nessuno ha mai protestato per la Cecenia, nessuno ha imposto sanzioni e nessuno ha preso le distanze dai russi, allora. Oggi, invece, l'Europa ha reagito con forza. Però c'è un'altra somiglianza importante fra le due guerre».
Quale?
«Non solo non c'è rispetto per un Paese vicino, fratello e non c'è rispetto per i civili, ma non c'è rispetto neanche per i propri soldati: i soldati russi sono stati spediti al fronte con poco cibo, rifornimenti scarsi e armi scadenti».
Anche in Cecenia?
«C'erano ragazzi di 18 anni che non avevano mai sparato un colpo, perché al campo di addestramento non avevano i proiettili. Oggi questi ragazzi sono riempiti di propaganda, specialmente quelli che vengono dalla campagna, dove non leggono la Novaya Gazeta...»
Che peraltro è stata costretta a chiudere pochi giorni fa.
«Era l'unico giornale che avesse protestato contro la guerra in Cecenia: soprattutto grazie ad Anna Politkovskaja, che aveva documentato tutte le atrocità commesse fin dall'inizio. È una pessima notizia. Qui a Kabul, i talebani hanno appena bloccato le edizioni della Bbc in pashto, persiano e uzbeko e tutte le frequenze delle radio straniere. Così è come pensa un dittatore... Quale sarà il prossimo passo?»
Putin coi media si
comporta come i talebani?«Diciamo che sia Putin, sia i talebani, li hanno bloccati. E, in Russia come in Afghanistan, non ci sono mai fughe di notizie, a differenza che in Occidente, dove ce ne sono di continuo...»
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