Gianfranco Spadaccia, storico leader e segreario radicale, 1967-1968, 1974-1976, in questa esclusiva intervista al Giornale racconta la sua militanza radicale iniziata in giovane età, anche se prima c'era stata una breve parentesi socialdemocratica. All'età di quasi 90 anni, con grande lucidità e saggezza ripercorre anni che hanno segnato la storia d'Italia e gli hanno permesso di entrare in contatto con figure del calibro di Mario Pannunzio, Leone Cattani e Giovanni Malagodi. Riguardo alla sua lunghissima vita nel Partito Radicale, ha scritto un libro di fondamentale importanza che può essere considerato un lascito per le generazioni future: Il Partito Radicale: Sessanta anni di lotte tra memoria e storia (Sellerio).
Qual è la causa di rottura con il Partito Liberale Italiano che dà il via alla formazione del Partito Radicale?
“Nel 1954 si era formato il governo Scelba ed era entrato Villabruna (come ministro dell’Industria) che era alla segreteria del Partito Liberale e che fu sostituito da Malagodi che ne rovesciò l’impostazione politica. In armonia con il resto della sinistra liberale Villabruna pensava a una unità delle forze laiche, in collaborazione con la Dc, per il governo del Paese, mentre Malagodi cambiò la strategia liberale. Il partito doveva essere espressione degli interessi costituiti, industriali, commerciali, agricoli e condizionare quindi la Democrazia Cristiana in concorrenza e in antagonismo con gli altri partiti laici che erano il Partito Repubblicano e il Partito Socialdemocratico. Questi grandi interessi economici erano oggetto di inchieste da parte di Ernesto Rossi, diventando in quegli anni uno dei principali obiettivi de Il Mondo”.
E Pannella come si mosse?
“Anticipò la scissione. Quando Gian Piero Orsello, segretario della Gioventù Liberale e appartenente alla corrente di sinistra, fece un accordo con Malagodi, Pannella insieme a Giovanni Ferrara, che dirigeva Critica liberale, provocarono una importante scissione della Gioventù Liberale Italiana per poi fondare Giovane Sinistra Liberale”.
Chi furono i primi importanti esponenti del Partito Radicale?
“Pannunzio, che ebbe una fortissima e indiscussa influenza, Leone Cattani, Nicolò Carandini (genero del fondatore del Corriere della Sera), l’imprenditore Albertini, Mario Paggi e Mario Ferrara. Il giovane Eugenio Scalfari, Arrigo Olivetti, cugino di Adriano, Ernesto Rossi, Carlo Antoni, Guido Calogero, Leopoldo Piccardi, presidente onorario del Consiglio di Stato e Leo Valiani, storico esponente azionista”.
Leone Cattani da segretario del Pli approdò poi nelle liste radicali...
“Lo ricordo come un uomo corretto, feci per lui nel ‘53 la campagna elettorale nel Lazio ma non fu eletto. A Roma nel ‘56 si presentò per il Campidoglio e fu eletto consigliere, opponendosi alla speculazione edilizia che stava distruggendo le periferie romane”.
Qual è il suo ricordo personale di Malagodi?
“Io non ha mai avuto grandi rapporti con Malagodi in quanto provenivo dal Partito Socialdemocratico e lui dalla destra liberale. L’ho conosciuto come presidente del Senato e ho avuto modo di apprezzarne la gentilezza”.
Un ruolo importante nello sviluppo della storia del Partito Radicale lo ha avuto Il Mondo di Mario Pannunzio.
“Nei primi sette anni di storia radicale ebbe un ruolo determinante. In molti infatti parlavano non a caso del “Partito Radicale del Mondo di Pannunzio”. È stato Il Mondo che ha avuto una funzione trainante e condizionante. Pannunzio era molto legato a La Malfa, all’idea dell’unità dei laici e sul Mondo scrivevano Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Guido Calogero, Carlo Antoni, Saragat, era quindi un giornale che travalicava le impostazioni liberali per rivolgersi all’intero mondo laico del Paese ed ebbe anche una certa fortuna nel preparare lo sganciamento dei socialisti dai comunisti”.
Come era Pannunzio visto da vicino?
“Una persona molto taciturna, molto influente. Un grande giornalista. Il Mondo ha avuto una funzione molto importante non solo nella cultura laica del Paese, ma anche nel giornalismo. Molti giornalisti delle generazioni successive si sono formati sulle colonne di quel giornale. Il Mondo non era solo un giornale politico, ma anche un acuto lettore della realtà che si esprimeva anche attraverso la grafica giornalistica e il sapiente e importante uso delle fotografie”.
Perché alla fine sceglieste di chiamarlo Partito Radicale?
“Nella rottura con il Partito Liberale assumemmo non solo noi, ma anche i radicali della generazione precedente alla mia, quella dei nostri padri e maestri, la convinzione che la parola liberale fosse usurata, un po’ malata, molto legata all’idea del potere. Tanto è vero che una parte consistente della classe dirigente liberale era passata armi e bagagli nel Partito Nazionale Fascista di Mussolini. Decidemmo quindi di ricorrere ad un’altra parola che aveva comunque a che fare con il liberalismo e che nella storia d’Italia era stata presente a lungo con personaggi come Nathan e Nitti. E quindi resuscitammo questa parola “radicale” che non aveva in Italia più l’importanza e il significato che poteva avere in un paese come la Francia”.
Come mai non riuscite a compiere un’unione delle forze laiche?
“Perché tutta la politica italiana spinge più verso la frammentazione che all’unità e al rinnovamento. E quindi abbiamo dovuto fare i conti con questa storia italiana. Poi la Costituzione, nel ridisegnare le istituzioni democratiche del Paese, aveva lasciato un vuoto di ingovernabilità e instabilità, e la legge elettorale proporzionale spingeva verso la divisione”.
Come nacque la sua vicinanza al Partito Radicale?
“Io ero socialdemocratico, però nell’università incontrai Pannella e gli amici della sinistra liberale nell’Ugi. A differenza di ciò che avveniva nel Paese dove c’era una forte Democrazia Cristiana e i tre partiti laici molto deboli, l’Ugi (che era l’unione dei laici senza distinzione di partito) ebbe la maggioranza relativa nelle università per oltre venti anni. Fu uno strumento di formazione eccezionale. La nostra formazione politica più che nelle federazioni giovanili dei partiti è avvenuta nell’università e nell’Ugi”.
Tra i comizi di quando era piccolo disse di ricordarne uno in particolare: di Terracini a Piazza Mazzini.
“Mi portava ai comizi mio nonno Carlo che era liberale. Prima del fascismo era stato liberale giolittiano. Io lo ricordo perché fu uno dei vari oratori che vennero in Piazza Mazzini. Terracini era un oratore straordinario ma molto diverso dagli altri, cioè era un argomentatore. Questo modo – diciamo – razionale di fare il discorso politico mi colpì molto. Terracini era allora presidente dell’Assemblea costituente ed uno dei massimi esponenti del Pci”.
Quando avvenne l’incontro con Pannella?
“Nel 1953. Stavo facendo la maturità classica e ci incontrammo a Piazza Colonna insieme ad un altro amico socialdemocratico che era Pippo Lo Verso. Parlammo a lungo del tentativo di far passare la legge elettorale definita “truffa” quando invece era solo una legge maggioritaria”.
L’incontro tra Pannella e Togliatti in Via delle Botteghe Oscure?
“L’incontro avvenne quando Pannella era presidente dell’Ugi e un giorno ricevette la telefonata di Togliatti che gli chiedeva di andare a trovarlo a Botteghe Oscure. Togliatti gli disse che il partito aveva deciso di sciogliere l’organizzazione giovanile dei comunisti e di invitarli tutti ad entrare nell’Ugi. Poi parlarono a lungo di politica, però Togliatti chiarì a Pannella che non c’era nessuna condizione da parte del Pci ma che c’era solo l’indicazione di iscriversi all’Ugi”.
In che modo descriverebbe Pannella, avendolo conosciuto per così tanti anni?
“Marco era una personalità poliedrica, molto creativa, tenace, intelligente e versatile”.
Era un buon stratega politico?
“Secondo me sì. I partiti come la Dc, Pci, Psi, non sono morti nelle nostre campagne di moralizzazione, sono morti di partitocrazia, un male che noi avevamo da sempre sollevato. Noi abbiamo fatto di tutto per richiamare i laici ma anche il Pci e la Dc alla necessità di una autoriforma politica dei partiti e dello Stato di diritto. Non ci siamo riusciti e questo è stato il più grave difetto della classe dirigente che pur avvertendo tutti i segnali di una crisi profonda del sistema politico italiano non l’affrontò con idee innovative”.
La battaglia sul divorzio fu uno dei vostri cavalli di battaglia…
“Nel 1962 decidemmo di invitare il Pci e i partiti laici a combattere insieme la battaglia dei diritti civili. Al centro di quella battaglia ci fu quella sul divorzio. Come mai riuscimmo a fermare il divorzio in un Paese in cui neppure la rivoluzione liberale dell’800 era riuscita a imporlo? Perché nel frattempo la crisi sociale che si era determinata nel paese con l’emigrazione interna, il passaggio di milioni e milioni di persone dall’agricoltura all’industria e ai servizi, e lo spostamento di milioni e milioni di persone dal Sud al Nord, e dalla campagna alla città, aveva messo in crisi molte famiglie, quelle più deboli, più povere, più esposte a questa crisi economica. Quindi il divorzio non era più un privilegio borghese, delle classi agiate, era diventata una spinosa e delicata questione sociale che bisognava avere il coraggio di affrontare. Noi riuscimmo a convincere prima il Psi, attraverso Loris Fortuna, poi il Pci, e nel giro di dieci anni riuscimmo a ottenere quello che nessuno aveva mai ottenuto. Prima con la vittoria in Parlamento e poi con la vittoria del referendum del 1974”.
Qual era il vostro rapporto parlamentare con la Dc e il Pci?
“Soprattutto a metà anni ’70, quando invece dell’alternativa democratica si formano i governi di unità nazionale intorno ad Andreotti, con la partecipazione prima indiretta, poi con il voto favorevole del Partito Comunista, in pratica diventammo l’unica vera forza di opposizione”.
I rapporti con Craxi?
“Furono un insieme di grande amicizia e stima reciproca ma anche di notevole diffidenza come sempre avviene nella politica italiana. Ad un certo punto Craxi non si fidava di Pannella perché pensava che potesse entrare nel Psi e quindi gli sbarrò la strada per l’unificazione tra radicali e socialisti. Però poi il governo Craxi ebbe con Pannella uno dei suoi interlocutori più fedeli ed alleati pur non facendo parte della maggioranza”.
Durante la sua segreteria del Partito Radicale, con quali leader politici ebbe un legame più stretto?
“Io come Pannella era personalmente amico di Craxi. Ho avuto un ottimo rapporto con Claudio Martelli, e nel Pci con Occhetto e Veltroni. Con D’Alema invece non abbiamo mai avuto rapporti diretti”.
Di Andreotti cosa pensa?
“Un uomo molto contraddittorio. Uno statista di grande intelligenza politica ma anche un uomo di potere”.
A distanza di tanti anni, quale bilancio trae dalle molte battaglie radicali?
“Abbiamo compiuto la rivoluzione dei diritti civili che in Italia non esistevano, perché dopo il divorzio è venuta l’obiezione di coscienza, la riforma del diritto di famiglia, la parità fra uomo e donna, la riforma dei codici penali e dell’ordinamento giudiziario militare che erano in netto contrasto con la Costituzione. Quindi siamo stati protagonisti di una rivoluzione culturale molto importante. Abbiamo anche provato una profonda riforma del sistema politico, io ricordo con orgoglio i referendum sull’uninominale che abbiamo vinto insieme a Mario Segni e a Bartolo Ciccardini”.
Però non tutte le battaglie sono state vinte…
“Il tentativo di riforma dello Stato e di
autoriforma dei partiti, di superamento della partitocrazia per arrivare ad una democrazia veramente costituzionale. Su questo noi purtroppo siamo stati sconfitti, ma non tanto noi quanto il Paese, pagando ancora le conseguenze”.
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