Me ne vado, anzi, resto. Fa harahiri il premier spagnolo Pedro Sánchez, che cinque giorni fa aveva ipotizzato un suo passo indietro dopo lo scandalo che ha colpito sua moglie, Begoña Gómez, per presunti finanziamenti pubblici ad aziende private. Ha deciso di rimanere alla guida del governo spagnolo, esecutivo nato dopo che il suo partito non ha vinto le elezioni arrivando secondo dietro i Popolari di Feijoo.
L'esponente socialista, che qualcuno dava in pole position per un ruolo di peso, tra Nato e Consiglio europeo, ha detto che non percorrerà la strada delle mozioni ma chiede una riflessione per cambiare la politica ed evitare che le fake news dominino la scena. Sánchez ha spiegato nel suo messaggio alla nazione che con questa decisione assume un nuovo impegno «a lavorare instancabilmente, con fermezza e serenità, per la futura rigenerazione della nostra democrazia e per il progresso e il consolidamento dei diritti e delle libertà, perché i mali che ci affliggono non sono affatto esclusivi della Spagna».
Ovvero farebbero parte di un movimento reazionario globale che aspira a imporre la sua agenda regressiva attraverso la diffamazione, la menzogna, l'odio e l'appello a paure e minacce che non corrispondono alla scienza o alla razionalità. «Mostriamo al mondo come si difende la democrazia» ha concluso, ma senza convincere troppo, né il paese né il Parlamento. Alcuni commentatori parlano apertamente di domande inevase e di precisazioni mancate nella sua arringa.
Di sceneggiata lo accusano le opposizioni, secondo cui dopo giorni di grande incertezza, con i mercati già in fibrillazione per le tensioni a Madrid, questa marcia indietro ha il sapore della presa in giro.
Alberto Nunez Feijoo lo definisce un presidente che «ha comprato l'appoggio dei suoi soci con la dignità di tutti gli spagnoli». Il riferimento è al voto di fiducia per il suo esecutivo ottenuto con l'appoggio dei separatisti catalani, a cui ha promesso l'amnistia. Ama solo se stesso, è troppo nervoso, questa sceneggiata è molto pericolosa: ecco il tenore della riflessione fatta dal Partito Popolare, che teme un'evoluzione ben più grave.
Ovvero la convinzione che per Sánchez non sono i giudici che possono condannare Puigdemont o perseguire sua moglie, «solo lui può deciderlo e nessun altro tranne lui. Perché solo lui sa cosa è degno e giusto». In sostanza i popolari temono una dittatura al contrario, dove il rischio non è dato da una destra dirigista ma piuttosto da un leader socialista che ha perso la barra della ragione e ha «la pretesa di essere ancora più presidente, anche se a costo di ancora meno democrazia». Per questa ragione Feijoo chiede un nuovo governo democratico.
Timori condivisi anche da Santiago Abascal, leader di Vox, secondo cui il peggio di Sánchez «deve ancora venire» e a questo punto l'unica azione da intraprendere è «lavorare per la resistenza e per la costruzione di un'alternativa urgente e praticabile».
Tra due settimane il partito celebrerà la sua convention a Madrid, a cui parteciperà anche il presidente dell'Argentina, l'ultraliberista Javier Milei, che nell'occasione non ha chiesto di incontrare né il capo del governo né il re.
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