Controllare le prediche dei preti per verificare se fanno attività antimafia. E, nel caso, intervenire con una commissione di giudici e giornalisti. Non è la Repubblica Democratica Tedesca, ma la proposta choc che emerge dal Tavolo 13 su Religione e Mafia promosso dagli Stati generali del ministero della Giustizia. Un'indicazione che ha fatto andare su tutte le furie il segretario della Conferenza Episcopale Italiana Nunzio Galantino, il quale ha bollato il documento ministeriale come «banale e arrogante». Un'ingerenza, ma c'è qualcosa di più perché il testo, che rimprovera alla Chiesa italiana di non aver fatto abbastanza in chiave antimafia, non è stato prodotto da funzionari di via Arenula, ma da un think tank progressista molto in vista, quella scuola di Bologna che ha in Alberto Melloni il suo segretario plenipotenziario e in Enzo Bianchi il suo «vate».
I lavori del tavolo sono stati presentati a fine novembre, ma il caso è esploso pochi giorni fa quando il numero due della Cei, partecipando a un incontro di Libera ha tuonato contro il tavolo ministeriale: «Tra le affermazioni, banalità non documentate scritte con una buona dose di arroganza e sicuramente sostenute da preconcetti e mancanza di conoscenze dirette, leggo di una fattuale estraneità della Chiesa cattolica a una lotta alle mafie». Un colpo insolito da parte di un vescovo, indirizzato però non solo all'attuale candidato Pd Orlando, ma soprattutto agli estensori del documento. In testa l'arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, vicino alla Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna di cui Melloni è segretario, ma che non si è mai occupata di Mafia. Melloni poi è un tifoso di Orlando, dato che ha sostenuto la sua corsa alla segreteria del Pd. Ma le conclusioni hanno destato sconcerto nel mondo cattolico.
A cominciare dall'accusa generalizzata di contiguità con il potere mafioso, anche a livello culturale, tutta da dimostrare e giustificata più dall'anticomunismo della Chiesa. Il documento infatti cita pochi casi di preti martiri, come don Pino Puglisi e don Peppino Diana, ma ancor meno episodi di sacerdoti realmente invischiati in vicende di malavita. Troppo poco per sostenere la tesi, eppure, il concetto è passato. E ha trovato ad opporsi non soltanto il vescovo Galantino, ma anche un magistrato impegnato in prima linea. Si tratta di Domenico Airoma, procuratore aggiunto a Napoli Nord che, intervistato dalla Nuova Bussola Quotidiana, ha contestato il Rapporto, sottolineando come sia stata volutamente dimenticata la figura del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla Mafia non solo perché giudice, ma anche perché «cattolico scomodo». Airoma infatti, ha ricordato come Livatino non fosse un giudice «esibizionista», ma ebbe sempre chiaro l'alto compito missionario che lo ha portato a testimoniare la sua fede nell'impegno antimafia col martirio. Sul progetto di istituire un osservatorio per monitorare le prediche dei preti, poi, Airoma si è chiesto dove porterà questo accanimento nei confronti della Chiesa.
«Ho visto con i miei occhi molti mafiosi convertirsi dopo aver incontrato sacerdoti che hanno mostrato loro il giudizio di Dio ha detto alla Nuova BQ - Ed è questo aspetto della conversione, unito alla consapevolezza dell'Inferno e del Paradiso che è la principale strada con cui la Chiesa fa, nel nascondimento, la sua migliore attività antimafia».
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