Il primo a cadere era stato il generale Haftar mollato dagli alleati di Russia, Egitto ed Emirati Arabi. Ma dietro a lui stanno venendo giù tutte le teste dei signori della Libia. Domenica sera a Bengasi, le proteste innescate dalla crisi economica hanno costretto alle dimissioni il governo della Cirenaica di Abdullah Al Thini. E agli addii illustri potrebbe aggiungersi quello del premier di Tripoli Fayez Al Serraj. Stando a fonti del suo esecutivo, citate da Bloomberg, il primo ministro annuncerà di voler lasciare entro ottobre quando l'Onu negozierà la nascita di nuovo governo di unità nazionale incaricato di mettere fine alle divisioni tra Cirenaica e Tripolitania culminate nell'assedio di Haftar a Tripoli. Ma chi manovra queste uscita di scena? E perché? Secondo molte voci dietro il «repulisti» ci sarebbe un'America infastidita dalla prospettiva di un accordo Mosca-Ankara capace d'innescare una spartizione in stile «siriano». Proprio per questo Washington avrebbe prima imposto un cessate il fuoco e poi fatto saltare il banco. Altrimenti non si capirebbe perché in una Tripoli uscita vittoriosa su Haftar si dimettano prima il ministro dell'Interno Fathi Bashaga vera «quinta colonna» dei turchi e poi lo stesso Serraj. Ma è chiaro che solo un totale rimescolamento di carte consentirà all'Onu di creare un governo di unità nazionale e cancellare, dopo 6 anni, la divisione tra Tripolitania e Cirenaica.
La prima a far i conti con questa ritrovata unità nazionale è però l'Italia. Il sequestro di due pescherecci e di 18 pescatori siciliani, fermati due settimane fa al largo di Bengasi, si sta trasformando in un odioso ricatto al nostro Paese condiviso da tutta la Libia. Da giorni a Bengasi e Tripoli si parla di un negoziato per liberare i pescatori in cambio del rimpatrio di Joma Tarek Laamami, Abdel-Monsef, Mohannad Jarkess e Abd Arahman Abd Al Monsiff quattro presunti «calciatori» che nel 2015, stando ai loro familiari, saltarono su un barcone per inseguire il sogno di giocare in Italia. Una versione ben diversa da quella emersa davanti al Tribunale di Catania dove i quattro sono stati condannati a 30 anni di reclusione per omicidio e traffico di uomini. Stando alla sentenza i quattro sprangarono i boccaporti del barcone su cui viaggiavano facendo morire soffocati 49 compagni di traversata chiusi sotto coperta.
Una versione contestata non solo dai familiari dei quattro, ma anche da quella parte dell'opinione pubblica libica concorde nel pretendere che i pescherecci italiani non riprendano il mare fino a quando i «calciatori» non avranno rimesso piede a casa.
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