I 17 anni di misteri: la condanna (blanda) per le scarpe pulite. Le prove mai trovate

Dalle indagini frettolose in pieno agosto al giallo della bicicletta: le incongruenze irrisolte sulla vicenda. E quella presunzione di innocenza inapplicata

I 17 anni di misteri: la condanna (blanda) per le scarpe pulite. Le prove mai trovate
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Se Alberto Stasi è davvero l'assassino di Chiara Poggi, è l'unico assassino condannato per non avere lasciato tracce. Alla fine di un processo interminabile e contraddittorio, l'unico l'elemento che alla fine incastrò Alberto è stato, per i giudici, l'assenza di sangue sulle sue scarpe. Se davvero quella lontana mattina di agosto scese le scale della bella villa dei Poggi a Garlasco, e trovò la sua ragazza assassinata, avrebbe dovuto sporcarsi le scarpe: perché tra l'ingresso e le scale si era consumato un assassinio brutale, e il sangue di Chiara era ovunque, sulle scale, sul corpo, sulle pareti. Le scarpe di Stasi, quando dopo avere lanciato l'allarme entrò nella caserma dei carabinieri, erano immacolate. Da qui partirono i giudici per una sequenza di deduzioni implacabili. Mente. Si è cambiato le scarpe. L'assassino è lui.

Ora che una nuova indagine dà fiato a dubbi che circolano da sempre, e costringe a riesaminare sotto luce diversa le ostinate dichiarazioni di innocenza di Stasi, è da questi scarni dati che bisogna partire. Ma anche da un dato di fatto inoppugnabile: Alberto era stato assolto. Per due volte, prima da un giudice, poi da un'intera corte d'assise, nessuna delle prove accumulate contro di lui durante le indagini sciatte e frettolose dei carabinieri, e fatte proprie dalla Procura di Vigevano, erano state sufficienti a condannarlo. E questo rende il caso di Garlasco, al di là del fascino un po' morboso da cold case, una vicenda esemplare di quanto sia inapplicata in Italia la presunzione di innocenza. Se per due volte la giustizia ha assolto Stasi, come si è potuto dichiararlo colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio»? Erano così irragionevoli, i giudici che in primo e secondo grado lo assolsero?

Mancò un soffio, a rendere definitiva la assoluzione di Stasi. «Innocente per non avere commesso il fatto», avevano stabilito tribunale e corte d'appello. Dopo i primi due processi, il fascicolo arrivò in Cassazione. E qui tutto si ribaltò, con una sentenza che entrò a pie' pari nella ricostruzione dei fatti e concluse: Stasi è l'unico assassino possibile. Da lì il nuovo processo. Dove Angelo Giarda, docente alla Cattolica, intimamente convinto della innocenza dell'ex bocconiano, si trovò a combattere con una accusatrice implacabile, il procuratore generale Laura Barbaini. Fu lei a rileggere al microscopio ogni minuscolo dettaglio: dalle scarpe alla bici ai computer dove si nascondeva la passione di Alberto per il porno, quella che avrebbe innescato la rabbia di Chiara e poi il delitto.

La Barbaini convinse la nuova Corte d'assise, e arrivò la condanna. «Convinse», ma fino a un certo punto. Perché la condanna fu blanda, come accade nei processi dove i giudici covano il dubbio di prendere la decisione sbagliata. L'accusa aveva chiesto trent'anni di carcere, la Corte ne inflisse poco più della metà: sedici anni. Troppo pochi per un colpevole, troppi per un innocente. E la stessa Corte ammise di non avere capito fino in fondo cosa e perché fosse davvero accaduto nei pochi minuti del mattino del 13 agosto 2007. A partire dal movente, perché la mania per le foto hot apparve anche ai giudici una spiegazione insensata. Scrissero che anche se la povera Chiara era diventata per Alberto «ingombrante e inutile», comunque «il movente resta sconosciuto». Ma Stasi venne condannato ugualmente, anche perché altri possibili colpevoli non ce n'erano, e a uccidere Chiara poteva essere solo uno che la conosceva bene: «La dinamica dell'aggressione - scrissero - dimostra come Chiara non abbia neppure avuto il tempo di reagire, dato che pesa come un macigno sulla persona con cui era in maggiore e quotidiana intimità». «Chiara non si è difesa e non ha reagito affatto». La direzione dei colpi «testimonia un rapporto di intimità scatenante una emotività».

Non c'è un movente, non ci sono impronte, non c'è l'arma del delitto.

Non ci sono testimoni: quasi incredibilmente, nella Garlasco deserta di inizio agosto, Alberto Stasi quella mattina secondo la sentenza avrebbe attraversato il paese in bicicletta da un capo all'altro, da casa sua a casa di Chiara, senza incontrare anima viva, senza che nessuno lo intravvedesse da una persiana socchiusa. Un colpevole dannatamente fortunato. O un innocente che adesso torna a provare un po' di speranza.

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