Sconto pure sull'omicidio. In tribunale un codice tutto per i rom

C'è una legislazione non scritta a favore dei rom, speciale e particolare, frutto di un'interpretazione che definire elastica è dire poco e basata sull'etnia. Lombroso, dall'aldilà, saluta e ringrazia

Foto d'archivio
Foto d'archivio

Il codice Rom. L'eco dei fatti di Bergamo conferma la sensazione dell'esistenza, nell'ordinamento italiano, di una legislazione non scritta, speciale e particolare, frutto d'un'interpretazione che definire elastica è dire poco e basata sull'etnia, come d'altra parte sembra sancire il Gup bergamasco quando afferma che il genitore della piccola Stella va assolto perché la fanciulla non correva pericolo poiché, a dispetto della sua tenera età, deve ritenersi abituata a situazioni del genere, frutto del contesto sociale di appartenenza. Lombroso, dall'aldilà, saluta e ringrazia: le sue teorie, sviluppate e perfezionate, trovano terreno fertile con decisioni che se da un lato aprono una ferita nell'ordinamento giuridico, riaccendendo il dibattito sui reati culturalmente orientati, dall'altro pongono seri problemi applicativi: basta essere rom (o comunque stranieri) per poter delinquere impunemente?

Il codice Rom dice sì. La Cassazione, negli ultimi tempi, s'è data un gran da fare per disapplicarlo, ma le Corti di merito continuano ad osservarlo, cedendo spesso alla suggestione del rispetto delle radici culturali degli imputati. Remo Nikolic, ad esempio, che nel gennaio del 2012 a Milano investì il vigile di quartiere Nicolò Savarino uccidendolo, sebbene accusato di omicidio volontario se l'è cavata a buon mercato per le attenuanti. Concessegli per «il contesto di vita familiare nel quale egli è cresciuto, caratterizzato dalla commissione di illeciti da parte degli adulti di riferimento e dalla sostanziale, totale assenza di scolarizzazione». Una discriminazione al contrario, che punisce chi studia e lavora o ha una famiglia alle spalle, in genere gli italiani, e tutela invece chi non può o non vuole. Se è rom, poi, l'indulgenza è piena. Nel recente passato (prima a Torino, poi a Bologna ed a Palermo) a farla franca sono state le madri che costringevano i figli all'accattonaggio: secondo i Tribunali giudicanti, «la condotta dell'agente era connotata da una motivazione culturale idonea a elidere la volontà di sopraffazione e violenza nei riguardi della vittima».

Tutto nella norma, dunque, anche perché «la questua fa parte della tradizione culturale del gruppo etnico di appartenenza». E loro, capito l'andazzo, ci marciano. Facendosi scudo dell'origine etnica. Al punto che sono cresciute a dismisura, proprio in Cassazione, le istanze di annullamento di condanne riportate in primo o secondo grado ponendo esplicitamente a base dei ricorsi «le millenarie tradizioni culturali dei popoli di etnia rom, per i quali l'accattonaggio assume il valore di un vero e proprio sistema che si configura quale scriminante». Così pure l'evasione dall'obbligo scolastico dei minori, giustificata col nomadismo e considerata lecita (in molti casi) per la deferenza che a detta di alcuni Tribunali si deve portare «alla cultura e condizioni di vita del nucleo familiare di riferimento».

A più riprese la Suprema Corte ha respinto la tesi: di fronte alla legge si è tutti uguali. Non esiste cultura o etnia che tenga.

«La giurisprudenza di legittimità - hanno stabilito nel settembre 2012 gli ermellini con una sentenza considerata un punto di svolta - ha escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni culturali». Spiegarlo anche al resto della magistratura non sarebbe una cattiva idea.

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