Sara Mauri
Dormono di giorno e vivono di notte. Quando fa buio si svegliano. Ma se la falena guarda alla fiamma, gli hikikomori non vedono la luce. Connessi, sempre connessi, invertono il ciclo sonno veglia e ribaltano i ritmi circadiani. Quella degli hikikomori è una tendenza che nasce dal Giappone. E non riguarda il tramonto della vita, riguarda qualcuno che la vita ce l'ha davanti: ragazzi, chiusi a riccio dentro le loro camerette, nel fiore della vita, senza speranze per il futuro, in bilico tra le pressioni, i giudizi e le aspettative della società. Scelgono di nascondersi. Nulla li sprona, li appassiona. Alcuni, in quelle stanze, ci restano anni. E, così le pareti diventano gabbie da cui è quasi impossibile uscire. Questo fenomeno così drammatico si sta diffondendo anche in Italia e uccide sogni e prospettive. Hikikomori significa ritirarsi, letteralmente «stare in disparte», isolarsi. Secondo l'associazione «hikikomori Italia», a ritirarsi senza avere nessun contatto diretto con il mondo esterno sono soprattutto i giovani maschi tra i 14 e i 30 anni di età, che abbandonano la scuola. In Giappone, sempre secondo Hikikomori Italia, ci sono oltre 500mila casi accertati, anche se le associazioni che se ne occupano sostengono si tratti di numeri più alti. Secondo alcune stime (non ufficiali), nel nostro Paese i ragazzi coinvolti dal fenomeno sarebbero 100mila. E sono in crescita. L'hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all'inizio, ma è qualcosa che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati del mondo.
Non sono choosy, non sono neet. I neet mantengono il rapporto con l'esterno, gli hikikomori no. Gli hikikomori sono ragazzi che non vivono bene e hanno timore della gente, delle persone dei giudizi. Hanno paura di andare a scuola, di deludere aspettative, di cercare un lavoro o di essere respinti. Intelligenti, sensibili, introversi. Hanno difficoltà a instaurare relazioni. Ma fanno fatica a capire di avere un problema. Gli hikikomori vivono nella solitudine e affidano ai social, ai videogame, ai giochi di ruolo online, il loro futuro. E se i rapporti interpersonali ora si fanno più mediati, oggi uscire di casa può essere un'opzione e non la regola. Su internet si può scegliere di essere chi si vuole e ci si può creare un'immagine diversa di sé. È un universo molto più benevolo, che garantisce quei successi e quelle gratificazioni che il mondo normale non offre. Gli hikikomori esprimono con il silenzio un disagio sociale. Non stanno bene, stanno male. Spesso, quello che hanno, viene riconosciuto come depressione. È il rifiuto di un mondo che non si riconosce o non si vuole più conoscere, percepito come ostile e distante.
E questi ragazzi si rifugiano nei social network, la loro finestra sul reale. La dipendenza da internet trasforma le loro giornate e i loro ritmi.
Coloro che hanno scelto di ritirarsi vivono in una solitudine estrema, galleggiano in una sorta di eremitismo volontario. E, così, il web diventa casa e porto sicuro, i videogiochi diventano piazze virtuali, i luoghi di incontro si misurano in bit, in un'esistenza sospesa dove il virtuale prende tutto lo spazio del reale.
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