«Tutto ciò che l'uomo ha imparato dalla storia è che dalla storia l'uomo non ha imparato niente». Un bel post-it, con un evidenziatore «fluo» a marcare la frase di Hegel, dovrebbe accompagnare la campagna elettorale di Kamala Harris. Servirebbe, quel memo, a consigliarle di dare una forte ripassata all'impianto di politica economica, coi suoi capisaldi in opposizione ai principi del libero mercato che hanno tutta l'aria di essere una pericolosa miccia di innesco per al(t)ro debito e alt(r)a inflazione. C'è già chi si prepara al peggio. In base ai calcoli del Comitato per un bilancio federale responsabile (Crfb), la Kamalanomics costerà quasi due trilioni di dollari in 10 anni. Il che significa un debito federale, attualmente sopra i 35mila miliardi, ancor più ingestibile e insostenibile che metterà a repentaglio lo status di valuta di riserva globale del dollaro.
Con efficace crasi, il New York Post ha parlato di «Kamunism» non appena la candidata alla Casa Bianca ha aggiunto un altro ingrediente alla sua ricetta «per ricostruire la classe media»: oltre alla cancellazione dei debiti sanitari, un credito d'imposta di 6mila dollari per le famiglie con bebé e un altro di 10mila per chi compra casa per la prima volta e l'innalzamento dell'aliquota d'imposta sulle società dal 21% al 28%, Kamala intende introdurre il controllo dei prezzi sui generi alimentari. Obiettivo: mettere al bando quella speculazione che soffia sul fuoco del carovita, il vero convitato di pietra nella corsa per le presidenziali.
Kamala si è accorta solo ora, dopo oltre 1.300 giorni passati al fianco di Joe Biden, di essere circondata da un nugolo di ingordi affamatori. Dimenticandosi dei 5mila miliardi di dollari inoculati nelle vene dell'America per uscire dalla recessione provocata dal Covid. Il Paese è ripartito, ma il conto è stato salato: prima che la Fed imponesse una cura da cavallo a colpi di rialzi dei tassi, l'inflazione è schizzata sopra il 9%. Se mai c'è stato, il fenomeno del «price gouging», cioè la pratica di gonfiare in modo scorretto i listini, avrebbe dovuto essere contrastato da Biden quando l'inflazione era all'acme. E invece, nulla. Il bersaglio è infatti quello sbagliato: il Fondo monetario internazionale ha calcolato che nel 2023 i margini di profitto nel settore alimentare hanno raggiunto il livello più basso dal 2019, pari all'1,6%.
Molti economisti sono convinti che la crociata kamaliana avrà sgraditi effetti collaterali, tra cui carenze di cibo, fioritura dei mercati neri e serrata dei negozi alimentari. Il passato dà loro ragione.
Basta leggere la bibbia sull'argomento (Forty Centuries of Wage and Price Controls: How Not to Fight Inflation, di Schuettinger e Butler): dell'impulso governativo di mettere la museruola ai prezzi si trovano già tracce nel Codice di Hammurabi, pieno di tabelle su come controllare perfino il noleggio dei carri; nei Sitonai, i guardiani del grano di Atene; nella Lex Sempronia Frumentaria di Caio Gracco che permise a un terzo dei romani di vivere grazie al «cibo gratuito» offerto dal governo; fino ad arrivare ai tempi più recenti, con i tentativi di pianificazione da parte di nazisti e comunisti e con il congelamento di prezzi e salari deciso da Nixon nel '71 che fece schizzare l'oro alle stelle. Quattromila anni di insuccessi e di esiti nefasti di cui è testimone la storia. Basterebbe, ogni tanto, darle una ripassata.
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