Tutti a prendersela con Elly Schlein. È vero che il cosiddetto «effetto Schlein», dovuto alle aspettative della sinistra per la neosegretaria e che si era manifestato con un rialzo (dal 19,1% ottenuto alle politiche, al crollo sino al 16% sino a prima delle primarie, fino al 20,4 attuale dunque poco più di quanto ottenuto in occasione della sconfitta elettorale del settembre scorso, con comunque un decremento rispetto al 20,7 del mese scorso, fonte Ipsos) dei voti virtuali, rilevati dai sondaggi, non si è tramutato in voti veri. Anzi. Ma a sua discolpa (al di là o, meglio, al posto delle motivazioni superficiali o, ci si permetta, forse ridicole - da lei espresse la sera della sconfitta come «il vento di centrodestra continua a soffiare» o, «si vince se si è uniti») va detto che la Schlein, come si sa (ma si tende a dimenticare) non è stata eletta dal Pd e, in larga misura, non è espressione del Pd. Al primo turno delle primarie, riservato agli iscritti, come è noto, vinse Bonaccini con il 53% (contro il 35% di Schlein), mentre solo al secondo turno, aperto alle influenze dei gruppi esterni (un metodo di elezione che è, ad avviso di molti, una grave falla del Pd) prevalse l'attuale segretaria, peraltro con uno scarto a suo favore di soli 80.000 voti su più di un milione di suffragi espressi.
Inoltre va ricordato che il Pd non è il maggior sconfitto in queste elezioni: il M5s e il terzo polo (o, meglio, quel che ne rimane) sono andati ancora peggio, raccogliendo un numero minimo di consiglieri eletti.
Ma al di là di questi dati, rimane il fatto vero che la Schlein è la grande perdente delle consultazioni di domenica e lunedì e che, come molti commentatori hanno notato, l'unico capoluogo in cui il candidato del Pd (alleato con il terzo polo) è riuscito (per la verità per soli 500 voti su più di 46.000 suffragi espressi al secondo turno) a prevalere è Vicenza, dove Giacomo Possamai (supportato dall'ottima consulenza di Giovanni Diamanti, politologo e sondaggista) ha rifiutato di invitare la Schlein (e gli altri leader nazionali) ai suoi comizi.
Che accadrà ora nel Pd? Al di là di qualche malumore, peraltro già espresso dai «riformisti» (come Ceccanti, Morando e Tonini che hanno pubblicato al riguardo una dichiarazione su Repubblica solo 15 giorni fa) presenti all'interno, è difficile che ci siano mutamenti significativi. Non va dimenticato infatti che, come mostrano tutte le ricerche al riguardo, il peso dei «riformisti» è modesto nel partito e ancor più nell'elettorato.
Il partito guarda oggi verso le elezioni europee, considerando queste amministrative una sorta di incidente di percorso e forte del fatto che è stato comunque la prima forza politica nei voti di lista, il che potrebbe rappresentare un vantaggio nelle consultazioni continentali, dove, come si sa, si vota con il proporzionale puro e dove le coalizioni non contano e ogni partito combatte contro tutti gli altri.
È tuttavia ragionevole pensare anche se è arduo fare previsioni di qui all'anno prossimo che, a meno di incidenti di percorso nel governo (come potrebbe essere soprattutto la tormentata vicenda del Pnrr), l'esecutivo mantenga il diffuso consenso attuale (anche i sondaggi mostrano come la popolarità della Meloni permanga al 48% e quella del governo al 46%, fonte Ipsos) e che quindi il risultato potrebbe non essere eccellente per il Pd. Ma cosa potrebbe accadere dopo? Se l'incapacità storica nel nostro paese della sinistra di coalizzarsi con le altre forze perdurerà ancora nei prossimi anni, il futuro per il Pd potrebbe essere assai problematico.
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