L'addio a Paolo Villaggio, maestro della risata surreale

Ha disintegrato i luoghi comuni: se ne va il grande artista che ha fatto capire l'italianità agli italiani. Divertendo tutti

L'addio a Paolo Villaggio, maestro della risata surreale

Ha sempre detto che il genio di famiglia era il fratello gemello Piero, professorone alla Normale di Pisa. Può darsi. Certo è che Paolo Villaggio, scomparso ieri a ottantaquattro anni, è stato un Grande, per non dire un Grandissimo. Roba da scomodare Totò e Walter Chiari, i due alfieri dell'umorismo surreale che l'hanno preceduto sul palcoscenico e sullo schermo e che non dovrebbero offendersi per un accostamento a prima vista blasfemo. Il pubblico, si sa, lo identifica subito in Fantozzi, il più servile e sfigato impiegato della nostra commedia, di cui si parla ampiamente a parte. Giusto, ma insufficiente.

Villaggio, nato a Genova da una famiglia altoborghese, aveva già mostrato di che (ottima) pasta era fatto, scrivendo in combutta con l'amico e complice degli anni giovanili Fabrizio De André, l'irresistibile testo della canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Un irriverente brano di stampo goliardico, che fece fremere di sdegno i benpensanti. Gli stessi che più tardi non apprezzarono le sue incursioni teatrali con la genovesissima Compagnia Baistrocchi. Come si permetteva un guitto sconosciuto, che non era nemmeno riuscito a completare l'università, a sbeffeggiare illustri uomini politici e riverite personalità del clero? La fama di quello strano tipo, goffo, tarchiato, con una faccia qualunque, era però destinata sconfinare oltre i confini cittadini. Così dai primi, e anche secondi, passi nel cabaret, nel 1968 arrivò il debutto in televisione. Il programma era intitolato Quelli della domenica e andava in onda nel tardo pomeriggio, della domenica, ovvio. Villaggio interpretava tale Professor Kranz, «tetesco di Germania», un prestigiatore inetto e presuntuoso, pronto a prendersela rabbiosamente con una sbigottita platea, prima intimidita, poi divertita, ma sempre piuttosto guardinga, per quelle inedite intemperanze. Sì, un comico che osava aggredire, a parole beninteso, gli spettatori, in tv non si era mai visto. Quasi contemporaneo di Kranz è il ragionier Giandomenico Fracchia, come il futuro collega Fantozzi sempre disposto a farsi umiliare dal capetto di turno. Nel nostro caso, impersonato da uno dei nostri più bravi caratteristi, Gianni Agus. Tutti personaggi ispirati ai bizzarri tipi frequentati ai tempi dell'impiego all'Italsider, che poco più tardi culminarono nell'ineguagliabile sintesi di Ugo Fantozzi. Un perfido, acuto ritratto del travet sottomesso, un umorismo per veri intenditori, nato sulle pagine dei (sei) libri.

Un caso letterario per carbonari, che si trasformò in successo planetario soltanto nel 1975, dopo l'uscita del primo trionfo cinematografico. La porticina dello spettacolo era ormai diventata un portone per Villaggio, che non si è più fatto mancare niente: cinema, teatro e tv. Di film ne ha girati tanti, raramente davvero riusciti (Brancaleone alle Crociate, Cari fottutissimi amici, Questione di cuore, Generazione mille euro), svariati i così così (Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto, La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, Ho vinto la lotteria di Capodanno), troppi i brutti. Quasi tutti, comunque, divertenti, al di là della limitata qualità. E sì, che fra i suoi registi ci sono stati Ferreri, Avati, Loy, Monicelli, Steno, Olmi. Perfino Federico Fellini con la pellicola d'addio (il barbosissimo La voce della luna). Il fatto, ben poco straordinario, è che Villaggio è stato per oltre vent'anni una macchina per far soldi, sfruttato dai produttori esattamente come Fantozzi dai superiori. Meno popolare, manco a dirlo, è il Villaggio attore teatrale, di cui tra le non tantissime interpretazioni è d'obbligo citare almeno L'avaro di Moliére, un Arpagone indimenticabile. Un personaggio per un pubblico forzatamente ristretto, al contrario delle molteplici apparizioni televisive, dalla fiction alla conduzione (accanto a Mara Venier nella Domenica In 2002-2003).

E quante ospitate, le ultime immerso in una mastodontica poltrona, ricoperto da un vasto caffetano chiaro, la lunga barba bianca e l'eterna voglia di stupire, e di provocare, con le stesse goliardate di mezzo secolo prima.

Una finta cattiveria che faceva ancora sorridere, a tratti anche sbellicare, ma che non sorprendeva più nessuno.

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