«Quando vedo le immagini dell'aeroporto, quelle dei miei ex-comandi a Kabul o Herat e penso agli ufficiali che hanno collaborato con noi mi si stringe il cuore. Provo una tristezza infinita e mi chiedo cosa possiamo fare per non lasciarli indietro». Il generale in congedo Giorgio Battisti è uno degli ufficiali che vive con più sofferenza la tragedia afghana. Per questo ex-Capo di Stato Maggiore del comando Isaf a Kabul ed ex-Comandante del contingente italiano ad Herat che spesso chiama l'Afghanistan la «mia seconda casa» l'abbandono dei nostri alleati è inaccettabile. «Quando dico che è inaccettabile lasciarli soli - spiega in questa intervista a Il Giornale - penso agli ufficiali e ai comandanti braccati casa per casa. In queste ore i talebani li stanno cercando utilizzando gli stessi strumenti bio-metrici per il rilevamento delle impronte digitali utilizzati dall'esercito per evitare le diserzioni. Salvarli non è facile. Ho un collaboratore bloccato con la famiglia dall'altra parte di Kabul, ma non so come fargli attraversare i posti di blocco talebani. Nè come garantirgli l'accesso ad un aeroporto dove sono gli americani a decidere chi entra».
Arrivano notizie di rivolte a Jalalabad, Assadabad e anche Kabul. E' il seme di una nuova resistenza?
«Spero di sì. Significherebbe che 20 anni non sono passati invano e che qualcosa abbiamo lasciato. Significherebbe che le giovani generazioni non sono più disposte ad accettare passivamente i soprusi dei talebani».
Cos'è cambiato rispetto a 20 anni fa?
«La percezione degli orrori e dei soprusi dei talebani. Quando arrivarono al potere vent' anni fa nessuno li conosceva. Oggi la gente ha i telefonini, vede le immagini delle esecuzioni sommarie e degli orrori che si succedono anche in queste ora. Capiscono che l'immagine dei talebani non è quella offerta nel teatrino di Kabul. Sanno che quei terroristi non sono diventati improvvisamente buoni. A differenza di chi, qui da noi, già dimentica che solo un mese fa erano il nemico responsabile della morte di 54 nostri soldati e delle ferite e delle mutilazioni subite da altri 700».
Cosa le da più speranza?
«Il fatto che le rivolte abbiano coinvolto Jalalabad e Assadabad nel Kunar, zone controllate da quelle tribù pashtun zoccolo duro del consenso talebano. Che proprio lì la loro egemonia dimostri delle crepe è di buon auspicio».
Poi c'è quanto resta dell'esercito
«Sì, m'incoraggia anche vedere le foto, mandatemi da altri ufficiali afghani, delle colonne di camion carichi di mezzi e materiali dirette verso il Panshjer. E dietro ci sono 20mila commandos decisi ad uscire dalla sacca di Kabul».
In mezzo c'è la piana di Shomali regno a suo tempo dei talebani
«Si ma non creda che il controllo talebano sia capillare. Con 70mila combattenti è difficile controllare un paese grande due volte l'Italia. Anche se ora possono contare su decine di migliaia di militari passati dalla loro parte».
Il Panjshir è isolato. Può resistere?
«É il grande interrogativo. La presenza in quella valle del figlio di Massoud e dell'ex-vicepresidente Saleh è significativa, ma senza l'appoggio di paesi esterni anche la determinazione delle tribù tagike, pronte a tutto pur di non farsi sottomettere dai Talebani, sarà messa a dura prova. Ahmad Shah Massoud, vent'anni fa, contava su Teheran e Mosca, ma oggi quelle due capitali sembrano più intente a dialogare con i talebani in funzione anti-americana che ad appoggiare un'ipotetica resistenza interna».
Fuori dal Panjshir c'è qualche altra speranza?
«Spero nei comandanti hazara, uzbeki o magari anche in quelli pashtun poco allineati con i talebani.
Si sono arresi e sono tornati a casa perchè in fondo non credevano ad una nazione afghana, ma ora potrebbero scoprire che devono liberare il proprio villaggio e il loro clan. E, come sappiamo, in ogni casa afghana c'è sempre un fucile».
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